Il tema dei riadattamenti cinematografici è spesso un tema spinoso, e a ragione. Hollywood ci sa fare ma, spesso e volentieri, si è restii a riporre fiducia in progetti non originali, soprattutto quando essi diventano fenomeni di massa popolari e, dunque, potenziali film per sbancare il botteghino. Il rischio che si consumi un omicidio intellettuale è sempre dietro l’angolo, un concetto riassumibile anche con un semplice titolo: Dragon Ball Evolution. Ma è proprio in questo modo di ragionare che Ghost in the Shell riesce a trovare una sua identità, perdendo parte della fitta iconografia e teoria legata all’opera originale di Masamune Shirow, rivelandosi però un prodotto ragguardevole.
La trama del film è incentrata su Mira Killian Kusanagi (Scarlett Johannson), salvata in extremis da una nave di rifugiati affondata che, in fin di vita, viene salvata attraverso un processo rivoluzionario: l’impianto del suo cervello all’interno di un corpo sintetico, trasformandola di fatto in un cyborg. Mira diventa poi un agente della Sezione 9, un’unità speciale del ministero della difesa specializzato in antiterrorismo cibernetico, diretto da Daisuke Aramaki (“Beat” Takeshi Kitano) e accompagnata da Batou (Pilou Asbæk), collega e unico amico che ha. L’arrivo di un nuovo nemico si rivelerà una dura prova per Mira, costretta a mettere in discussione la sua esistenza e il suo passato, molto più drammatico di ciò che pensava.
Partiamo dalle gioie per gli occhi: visivamente il film è ad altissimi livelli, una cosa che sospettavamo già dai vari trailer diffusi ma che all’atto pratico rivelano un’attenzione ed una cura sorprendenti. Nonostante il film sia immerso nella CGI più totale, una scelta obbligata per ricreare una New Port City estremamente futuristica e ormai dominata dalla tecnologia, gli effetti visivi sono realizzati con gran perizia, rendendo il setting del film magnetico come dovrebbe essere.
La stessa sceneggiatura, scritta a quattro mani da Jamie Moss e Whilliam Wheeler, dona al film un ritmo molto buono, bilanciando le scene d’azione pure con sequenze più rilassate perlopiù di dialogo, dove le tematiche classiche del manga non sono sviluppate appieno ma quanto basta per portare avanti la trama e far interrogare tanto la protagonista quanto lo spettatore sul mondo portato su schermo da Rupert Sanders, dove la linea sottile tra umano e macchina è sempre più labile.
A tal proposito, è doveroso anche fare degli apprezzamenti sul regista: nonostante Sanders non abbia un nome blasonato, infatti, la sua regia è accattivante, capace di catturare alla perfezione i momenti più action della pellicola riponendo grande attenzione nei dettagli, con stacchi ben congeniati e senza sbavature. Sono stati persino riprodotti diversi momenti dell’anime in maniera fedele, offrendo allo spettatore navigato citazioni che varranno un sorrisetto beffardo sulla faccia, oltre a veri e propri easter egg dedicati agli hardcore fans di Masamune Shirow.
Stesso discorso per il cast: sorvolando sull’indiscutibile bellezza di Scarlett Johannson, l’attrice fornisce un’ottima performance, rinforzata dall’altrettanto buon lavoro dei suoi comprimari, escluso forse il cattivo del film – un po’ stereotipato – nonostante il suo essere un elemento perfettamente incastrato all’interno della narrazione. Impossibile poi non amare le scene dedicate a quel bravo ragazzo di “Beat” Takeshi Kitano, sempre sul pezzo nonostante i suoi settant’anni e ancora capace di regalare grandi momenti, con una frase che non tarderà a diventare un quote memorabile. Ottimo inoltre l’editing sonoro e la soundtrack che sposa il massiccio uso di synth dai richiami anni ’80 che stanno un po’ reinfluenzando la cinematografia moderna, affiancati alla colonna sonora originale dell’anime, omaggiandola rispettosamente e senza mai esagerare.
Ghost in the Shell riesce dunque a far convivere serenamente la sua doppia identità di blockbuster e adattamento di un’opera fondamentale per il genere cyberpunk, offrendo due ore di spettacolo ma anche di riflessioni sul rapporto tra uomo e macchina, meno profonde del previsto ma non per questo trascurabili. Anche i fan “originali” di Ghost in the Shell potranno fare un sospiro di sollievo e, anzi, gioire per un prodotto così ben confezionato e che – speriamo – porti molte persone ad approfondire le idee originali di Shirow, rendendo giustizia all’impegno tendenzialmente lodabile di portare al grande pubblico opere così importanti.