Nessuno esce indenne dagli anni dell’adolescenza. Perfino chi ricorda il tempo passato nei corridoi del liceo con affetto si porta dietro cicatrici che risalgono a quel periodo, e sono cicatrici che difficilmente con gli anni scompaiono, al massimo diventano percepibili solamente a un occhio molto sensibile. È di come si creano queste cicatrici che 13 Reasons Why tratta. E lo fa in un modo del tutto rivoluzionario rispetto a tutti i teen drama che sono stati fatti fino ad oggi.
Hanna Backer si è suicidata. La storia è questa, si parte già sapendo come finirà il plot, ma quello che non ci si aspetta minimamente è il coinvolgimento emotivo con le vicende dei ragazzi che hanno popolato il mondo di Hannah nel corso della sua breve vita. Sarà proprio lei a raccontarcelo, descrivendo con accuratezza le tredici ragioni che l’hanno spinta a mettere fine alla propria vita, con un singolare e old fashioned biglietto d’addio: tredici lati di cassette incisi con la sua voce, che guidano passo passo il protagonista Clay (e noi attraverso i suoi occhi) verso la sua morte.
Ciò che è più interessante della serie è proprio l’effetto che provoca sull’emotività di chi guarda. L’intento degli autori era quello di trattare temi molto forti (suicidio, bullismo, iperconnessione e solitudine) senza fare nessun tipo di sconto, senza edulcorare quella che è una realtà crudele, facendo allo stesso tempo presa su un pubblico che spaziasse dagli adulti ai più giovani. Un’operazione complicata ma riuscita alla perfezione.
I tredici episodi bilanciano perfettamente la drammaticità della vicenda con la leggerezza tipica di quel peculiare periodo della vita, in cui si siede costantemente su un’altalena emotiva che spazia dall’euforia al più cupo degli umori. Inoltre le puntate sono conchiuse, ma il finale lascia sempre aperta la strada a quello che racconterà il nastro successivo, in modo da incollare letteralmente lo spettatore alla sedia. Da qui il binge watching inevitabile per chiunque abbia iniziato la serie, anche se con riserve e scetticismo. E l’obiettivo di creare dibattiti e conversazioni intorno a questi argomenti è stato centrato in pieno.
Non si è comunque preparati all’effetto che seguire gli ultimi momenti di Hannah provocherà. Nella mia testa, a ogni lato di ogni cassetta mi ripetevo “Vabè ma non sono cose così gravi, bene o male ci siamo passati tutti, è lei che esagera”. È una cosa ripetuta anche da più personaggi nel corso della serie. Hannah, fra le altre cose, viene etichettata come “Queen drama”, le viene chiesto, anche in buona fede, perché debba fare sempre una tragedia di tutto, nel nostro gergo sarebbe stata definita una “pesante”. A chi di noi non è capitato di etichettare così una compagna o un compagno di scuola? Sono dinamiche da gruppo, anzi da branco.
Anche se la serie non si focalizza esclusivamente sull’argomento, porta comunque a riflettere anche sui i mezzi che oggi i ragazzi hanno a disposizione.
13 Reasons Why mostra con lucida oggettività quanto poco ci vuole a diffondere una foto che fuori contesto può essere interpretata in mille modi sbagliati e a rovinare la reputazione di una persona. L’immediatezza dei mezzi diventa quindi leggerezza e superficialità, l’avanzata tecnologia a cui siamo sottoposti fin da tenera età ci toglie quello spazio e quel tempo necessari a sviluppare un pensiero riflessivo e non può che accentuare la sconsideratezza della gioventù. E basta un niente per etichettare una persona con una sensibilità più spiccata degli altri, che semplicemente vive la vita con più intensità rispetto alla maggioranza, allontanarla e isolarla, semplicemente perché da adolescenti si ha ancora il retaggio dell’egoismo infantile e il mettersi nei panni degli altri è un’operazione spesso molto complessa.
13 Reasons Why intreccia questo tema forte a molti altri già più discussi, come la struttura sociale dei licei americani, i rapporti familiari, la difficoltà nell’intessere rapporti reali (sia sentimentali che di amicizia), la sessualità, la marginalità che ha il sistema scolastico nell’aiutare i ragazzi ma al contempo la centralità che può avere nel distruggerli.
Ma l’altra eccezionalità di questa serie sta proprio nel calibrare alla perfezione ogni singolo elemento, inserendolo esattamente al posto giusto nel momento giusto, in un climax che accompagna alla perfezione i vari stati d’animo che lo spettatore attraversa durante la visione. Non mancano quindi i colpi di scena, gli indizi appena accennati e le pieghe inaspettate.
Tutto orchestrato attraverso un susseguirsi di flash back, salti da una linea temporale all’altra, che spesso passano dalla chiusura o apertura di porte, senza però lasciare lo spettatore confuso o spaesato (la ferita che continua a riaprirsi sulla fronte di Clay probabilmente non è casuale, più volte capita che sia quella la bussola che ci fa capire in che punto siamo).
Dopo la sua uscita, su internet è iniziata a circolare una petizione di un ragazzo italiano che chiede la proiezione della serie nelle scuole. Come dicevamo sopra, l’obiettivo degli autori della serie sembrerebbe sia stato centrato in pieno, 13 Reasons Why è stato commentato (ed elogiato) in lungo e largo.