Ogni trailer è volto a promuovere il film mediante strategie che possono risultare più o meno funzionali a seconda dell’onestà o della subdola aspettativa che creano. Per tale ragione l’autocoscienza dello spettatore spesso s’inganna nel credere di avere il coltello dalla parte del manico quando pretende un giudizio, che spesso è più facile tanto più è errato. Ha forse senso pensare che il lasciare intendere abbia insito un che di ammiccante e di utile ai fini promozionali.
D’altra parte una chiarezza inerente al genere e alle atmosfere, implica la garanzia di raggiungere il target di pubblico già prefissato.
I trailer migliori sono dunque allusivi ed onesti, promettenti e pure in grado di saziare (anche se non del tutto) la curiosità necessaria al fine di spingere il pubblico all’esodo verso il grande schermo. E il 23 novembre il grande schermo italiano ospiterà Il libro di Henry, terzo lungometraggio del regista statunitense Colin Trevorrow.
Dal trailer una realtà emerge senz’ombra di dubbio: la qualità degli attori.
Virtuosa promessa che non viene di certo smentita nel film, grazie dalle straordinarie interpretazioni dei protagonisti: la madre single dagli atteggiamenti adolescenziali (Naomi Watts) che vive con il figlio Henry (Jaeden Lieberher), giovane prodigio che si prende cura di lei e del fratello minore Peter (Jacob Tremblay).
E se i personaggi principali appaiono profondi e verosimili, i comprimari non sono da meno, grazie a un Dean Norris che si riconferma credibile nei panni dell’agente di polizia, ai quali sa offrire ben altre accezioni.
Altro discorso per quanto concerne la trama che viene spiegata nel trailer senza esser però mai chiarita, abbandonando lo spettatore disorientato e confuso, su un talamo di dubbi e domande che possono esser placate soltanto con la visione del film.
I dialoghi del lungometraggio risultano nettamente superiori rispetto a ciò che ci si aspetterebbe dall’assaggio promozionale, meravigliando per la profondità dei contenuti e grazie alla fluidità nella verosimiglianza.
Ciò che però risulta più fraudolento è l’aderenza al genere millantato.
Il libro di Henry viene spacciato da film per famiglie, drammatico si, ma che scade nel thriller per trattar la tematica dell’abuso.
E forse lo è, tutto questo.
La famiglia è centrale, ma nel dramma, non nel riso.
Il thriller vive (e scade) nella funzione puramente estetica, poiché non perviene nessuna caratteristica del genere.
Ma di dramma si parla ed il dramma è reale.
Il libro di Henry è un film che afferra lo spettatore per le viscere e che lo tiene sospeso nel corso del suo minutaggio e ben oltre.
Lo fa per lasciare un’eredità, forse scontata, ma certo non futile.
Un’eredità nei confronti della quale, cari pubblicitari, lo spettatore informato può non esser pronto.