Il Giardino delle Parole altro non è che un mediometraggio d’animazione giapponese di 46 minuti, proiettato nelle sale giapponesi nel maggio del 2013 e fatto precedere da un breve cortometraggio di 7 minuti intitolato Someone’s Gaze. La Sentai Filmworks acquisì i diritti d’autore per la distribuzione del film nel Nord America mentre, in Italia, fu Dynit a divulgarne i contenuti, annunciando il tutto durante l’evento del Lucca Comics & Games 2013. Venne proiettato su suolo nazionale, infatti, solamente il 21 maggio 2014, in un’unica data.
Shinkai fra tradizione ed innovazione
Benché sia passato più di un lustro dalla presentazione de Il Giardino delle Parole al Gold Coast Film Festival in Australia (parliamo del lontano 28 aprile 2013), non poteva di certo mancare il nostro parere su questo ennesimo sentimental-anime di colui che, al giorno d’oggi, viene considerato l’erede diretto della tradizione tracciata da Hayao Miyazaki con la sua filmografia: mi riferisco a Makoto Shinkai, giovane regista – classe 1973 – che salì alla ribalta nel 2007 grazie al suo lungometraggio 5 cm al secondo. Un paragone, quello con Miyazaki, decisamente troppo ambizioso ed azzardato, per l’epoca. Indubbio è che i due fossero, allora, su piani nettamente diversi, sia dal punto di vista stilistico che poetico. Per tastare la piena maturità artistica della produzione di Makoto Shinkai, bisognerà attendere, infatti, l’avvento di Your Name nel 2016: solo qui il regista raggiunge vette di rara bellezza ed originalità, estranee a buona parte della sue opere precedenti.
Nella produzione de Il Giardino delle Parole, però, Shinkai si dimostra essere un uomo estremamente versatile e brillante dal punto di vista cinematografico: in grado di destreggiarsi senza difficoltà alcuna tra la cura della regia e della sceneggiatura, senza minimamente trascurare il montaggio e la fotografia, la sua attenzione è rivolta al dettaglio e alla sublimazione dello stesso, in particolar modo quando si tratta di dover tratteggiare scenari e particolari naturalistici. Anche alle musiche è stata data grande rilevanza, dato che riescono ad accostarsi egregiamente agli sviluppi della trama e ad accompagnarla sino al suo epilogo: Rain, interpretata da Senri Oe nel 1988, è la colonna sonora di questo film, dopo esser stata riarrangiata da Motohiro Hata.
Tutt’altro che indifferente, in extremis, il contributo di Miyu Irino. È lui a prestare la sua voce al coprotagonista della vicenda (Takao Akizuki), dopo esser passato alla storia come l’interprete di Sora in Kingdom Hearts, Minato Namizake in Naruto: Shippuden e Tsubasa in Beyblade Metal Fusion.
Amore: un giardino, un gazebo e niente più
Siamo nell’intramontabile Tokyo, in un distretto imprecisato dell’immensa megalopoli giapponese. Qui, il lussureggiante parco nazionale Shinjuku Gyoen diviene luogo di rifugio, nei giorni di pioggia, per il quindicenne Takao Akizuki. Si tratta di un ragazzo molto riflessivo ed introspettivo, ben più maturo dei suoi coetanei, per via della sua particolare situazione familiare. Il parco in questione è intriso di un’atmosfera amena e fiabesca, quasi a ricordare un po’ l’Arcadia di Virgilio e Sannazzaro: una terra dalla vegetazione rigogliosa, su cui il dio Pan non avrebbe disdegnato di adagiare le sue nobili terga, attorniato dalla sua corte di driadi e ninfe. Quegli stessi giorni piovosi in cui si vorrebbe restare comodamente avvolti dal tepore delle coperte, diventano per Takao il momento perfetto per marinare la scuola ed evadere in una realtà di cui lui solo è geloso custode. Il tetto di un gazebo in legno come unico riparo dalle intemperie. Una sorta di cantuccio oraziano tramite il quale estraniarsi dalla caotica realtà urbana ed occuparsi del suo unico grande sogno: progettare scarpe da donna per essere, in futuro, un abile calzolaio. Intanto, nel susseguirsi delle scene, il lirismo tocca vette inaudite: dalla pioggia che cade fitta sulle pozzanghere, agli scorci plumbei del cielo in tempesta, ai tanti fotogrammi iperrealisitici raffiguranti comuni scene di vita urbana (metro, palazzi, ecc…). Il tutto contribuisce a dar vita e a tratteggiare egregiamente l’ambiente circostante, tanto che, alla fine del film, sembra di aver davvero respirato 46 minuti di pura aria nipponica.
Sarà in questo gazebo che Takao incontrerà Yukari Yukino, una ragazza di 27 anni e dal fascino malinconico, intenta a trangugiare un’associazione culinaria alquanto insolita: cioccolata e birra. I due avranno l’impressione di essersi già incontrati da qualche parte – tema che verrà ripreso anche in Your Name – pur non sapendo precisamente dove.
Il rombo del tuono nel cielo nuvoloso, forse pioverà e, quando accadrà, resterai con me?
Questo l’emblematico tanka tratto dal Man’yoshu, con il quale Yukari si congederà da Takao, dopo la fine della loro prima chiacchierata, con la speranza di rivedersi nuovamente, al solito posto. Dagli sguardi, dai silenzi, si passerà, con il trascorrere dei mesi e il susseguirsi degli incontri, ad una conoscenza sempre più profonda tra i due, i quali vedranno sgretolarsi pian piano quell’alone di grigia solitudine che pervadeva le loro giornate. Per entrambi, il gazebo, nelle giornate di pioggia, diviene un luogo esclusivo e mai frequentato da altri. Ed è la pioggia stessa a creare tale incantesimo: l’intenso scrosciare di questa garantisce una protezione arcana alle loro confessioni, difendendone la segretezza. Shinkai è abilissimo nell’analizzare la quotidianità, alternando i punti di vista dei due protagonisti, ma, nonostante ciò, riesce sempre a mantenere un velo di fitto mistero sulla reale identità di Yukari.
La sera, prima di andare a dormire, e la mattina, quando apro gli occhi, mi rendo conto di pregare perché piova. Quand’è sereno, mi sento impaziente. Il mondo del lavoro di quella donna, ovunque esso sia, è per me lontanissimo, quasi come se ai miei occhi lei rappresentasse il mistero stesso del mondo.
Eppure, da un certo punto della narrazione in poi, il dubbio sorge spontaneo: che le tantissime digressioni visive/naturalistiche non siano altro che un escamotage ideato con il fine di distogliere l’attenzione da quella che per molti potrebbe sembrare una trama scarna e a tratti stentata? Shinkai porta in scena un dramma sicuramente molto articolato, ma si limita a suggerirne appena una possibile risoluzione, senza andare davvero ad analizzare e sviscerare l’imperscrutabilità degli eventi. Ebbene sì, perché ci si aspetterebbe un climax ascendente nell’analisi e nella rivelazione della psiche dei due personaggi, man mano che ci si appresta all’epilogo. Eppure, Takao e Yukari non vengono caratterizzati a sufficienza, risultando privi di dinamismo, a tratti apatici ed inespressivi, incapaci di trasmettere emozioni complesse ed in grado di scambiarsi a mala pena semplici battute, seppur a fini puramente didascalici. Non si è dato abbastanza spazio, o forse tempo, alla crescita e alla maturazione dei due personaggi nel corso dei 46 minuti, nonostante gli innumerevoli spunti di riflessione e i colpi di scena disseminati qui e là nella trama. Il finale gridato, in cui si taccia lei di egoismo ed insensibilità, infatti, per quanto straziante ed accorato possa essere, stride molto con l’ordine, la quiete e la compostezza che hanno caratterizzato le scene precedenti. Questo per dire che sarebbe bastata un’accortezza maggiore alla caratterizzazione dei personaggi, cosa tutt’altro che irrilevante o semplicistica a farsi, per rendere Il Giardino delle Parole un vero e proprio capolavoro dell’animazione giapponese.
Il rombo del tuono nel cielo nuvoloso e anche se non piovesse resterò con te.
Shinkai è un sentimentalista. Anche in questo mediometraggio il tema affrontato è quello già presente in 5 cm al secondo: l’amore in relazione alla solitudine e al distacco. Una rielaborazione, se così la si vuole riduttivamente intendere, in cui, però, i tormenti adolescenziali, gli amori irraggiungibili, le difficoltà di comunicazione, la lontananza, sia essa intesa in senso fisico/geografico che in senso mentale/anagrafico, non cessano di emozionare e coinvolgere lo spettatore. Rimane oltre modo apprezzabile il tentativo di descrivere quanto la solitudine possa esser presente nelle diverse fasi di vita di un uomo: sia che si parli di adolescenza che di età adulta, in cui certe fragilità giovanili non sempre si dissolvono poi del tutto.
In sintesi, si tratta di un film non sempre mordente sul piano narrativo, ma che si risolleva ampiamente grazie alla straordinaria qualità delle animazioni e alla cura quasi maniacale del dettaglio.
Una questione di culture
È indubbio che il cinema nipponico, in qualunque morfologia lo si voglia intendere, richieda allo spettatore occidentale uno sforzo tutt’altro che indifferente, ossia, quello di riuscire a far proprio un modus vivendi con il quale non sempre si ha grandissima confidenza. Da comune ragazza 23enne italiana quale sono, avrei desiderato ardentemente fra i due protagonisti scoccasse il fatidico bacio. Quale miglior modo per suggellare una lunga serie di incontri e reciproci svelamenti shopenauriani? Era palpabile nell’aria il sentimento reciproco tra i due. Invece no. L’abilità di Shinkai sta nel portare lo spettatore ad osservare il mondo, e la storia in questione, con occhi apparentemente estranei. Manda in frantumi qualunque aspettativa. Ogni speranza. Ogni possibilità di un lieto fine. Il tutto nel limite, nel rispetto e nel riserbo tipicamente giapponese. E solo nella scena finale viene spiegato il perché di una tale travagliata attesa. In summa, si parla di un modo di interpretare i sentimenti, l’amore in particolare, totalmente diverso rispetto al solito all and now contemporaneo. Non a caso, per buona parte della critica occidentale si tratta di un anime dalla tematica bambinesca e un po’ banale. E forse lo è, ma non dal punto di vista di uno spettatore in grado di immedesimarsi nei costumi e nel modus pensandi giapponese, in cui amore e solitudine non sono due stati d’animo che si escludono a vicenda, ma che si amplificano l’uno tramite il riverbero dell’altro. È questa la bravura di Shinkai: lasciare che le emozioni esplichino, in tutta la loro dirompenza, il proprio linguaggio universale, scibile a chiunque. Ciò che cambia sono i parametri valutativi di tale stilemi, insiti nelle consuetudini e negli usi di una determinata comunità. Il potersi sentire, così, trasversalmente parlando, cittadini del mondo in senso kantiano, non è magnifico?
La bravura di un critico, e la bellezza di tale “ruolo”, sta, infatti, sia nell’analizzare/valutare un’opera cinematografica in base al target di riferimento, sia nel riuscire ad “educare” maieuticamente lo stesso pubblico ad una forma interpretativa del fruibile differente rispetto a quella consuetudinaria. Solo così si ha la soddisfazione di aver dato sufficiente lustro e dignità ad una realtà che, per quanto lontana possa essere, non necessariamente deve essere considerata sbagliata o meno giusta. È paradossale quel che ti accade dentro in questi frangenti: comprendi e non comprendi, al tempo stesso, il personaggio, la sua psiche, accetti e non accetti il perché questi abbia deciso di agire in un determinato modo. Non puoi far altro che lasciarti trasportare dalle sensazioni, conscio, però, che dell’altra cultura un qualche seme ti è rimasto dentro.
(N.B.: non interrompete la visione del mediometraggio, una volta giunti ai titoli di coda. Dopo, infatti, vi sarà un’ultima significatissima scena! Imperdibile!)