Se Kiss Tomorrow Goodbye aveva seminato dei tristi sospetti, The Big Never, terzo episodio della nuova stagione di True Detective, ci lascia amare certezze. Senza abbandonare il ritmo compassato della narrazione, continuando a seminare pazientemente bricioline di pane verso la soluzione del caso e i motivi di rimpianto della vita di Wayne, lo show ci traghetta sempre più in una zona franca crocevia tra tempi vecchi e nuovi. O che noi riteniamo tali.
La deposizione di Roland
A sbrogliare il primo nodo è Roland West. L’ex partner di Wayne chiamato a deporre per la riapertura del caso Purcell nel 1990 conferma la sensazione che era aleggiata nelle puntate precedenti: l’agente Hays è stato vittima di un’ingiustizia che in un modo o nell’altro ha condizionato tutta la sua vita. L’abbandono del lavoro, la rivalità con la moglie scrittrice in ascesa e abile investigatrice, la paura incontrollata per i figli nelle più normali incombenze quotidiane rivelano la trasformazione subita dal protagonista ben prima della sua malattia. Pizzolatto ripropone l’immagine dell’eroe capace ma tormentato, condannato ingiustamente al fallimento di cui Rust Cohle si era fatto perfetto portabandiera nella prima stagione. Mentre però il personaggio di Matthew McConaughey conviveva con il peso del suo triste destino già dall’inizio delle vicende, qui assistiamo- seppure frammentariamente- alla graduale decadenza di Wayne. Potremmo poi non rivedere le stesse dinamiche che hanno interessato Marty e Rust, nonostante le similitudini iniziali: infatti la reunion di West e Hays è destinata a subire un’ulteriore e ignota evoluzione rappresentata dal terzo piano temporale che conduce dal 1990 al 2015, altra geniale fonte di curiosità.
The Big Never da Nietzsche a Einstein: il tempo è mai
La scelta di mostrare per fasi sfalsate non solo la ricostruzione del caso ma anche la distruzione di Wayne è coerente con il tema cardine di True Detective che si è imposto con forza già all’esordio di questa terza stagione. L’astrazione dei vecchi monologhi di Rust contrapposti alle osservazioni pragmatiche di Marty si perdono e il problema viene spiegato più chiaramente, con meno raffinatezza ma con grande effetto, dall’apparizione di Amelia al vecchio Wayne nel 2015. L’impressione di un continuo fluire tra passato e presente, ben suggerita dalla regia, è palesata dalle crudeli parole della donna, che condanna il marito a rivivere per sempre il proprio infelice passato. È proprio da questo terribile anatema che emerge il vero ruolo della malattia di Wayne: non solo un efficace espediente narrativo ma un modo diverso di concepire il tempo, forse un dono per vederlo quale realmente è e non come noi umani siamo abituati a elaborarlo. La demenza permette al vecchio poliziotto di risvegliarsi “dall’illusione persistente” dell’esistenza di passato, presente e futuro, un meccanismo simile a quello proposto da Denis Villeneuve in Arrival. Cosa possiamo aspettarci è presto detto: la chiave di volta del caso Purcell Wayne la conosce ma non la ricorda.
La pista dimenticata e i piccoli bugiardi
Ma anche il 1980 offre nuove rivelazioni, che quadrano con lo sconvolgente esito dell’intervista del 2015. Mentre il gretto razzismo della comunità cerca i propri colpevoli, scopriamo che i piccoli Purcell mentivano sulle loro abitudini quotidiane. Come l’inquietante pista di disegni infantili e giocattoli sembra condurre dritta a un subdolo adescamento, così i fascicoli di Elisa Montgomery fanno luce su un palese errore commesso dai nostri detective, e cioè l’abbandono delle indagini riguardo la berlina marrone e i suoi proprietari, un uomo nero e una donna bianca. Come hanno potuto Roland e Wayne ignorare l’informazione ottenuta già nel 1980? Wayne ha forse dimenticato il motivo per cui quella pista è stata abbandonata? E la ragione potrebbe avere a che vedere con il suo allontanamento dalla polizia o del vagabondare notturno? Per scoprirlo dobbiamo affidarci ai ricordi del vecchio detective e tutti gli indizi lasciano presagire rivelazioni sconvolgenti nelle prossime puntate.