Anno Domini 2018. Mentre i gilet gialli mettevano a ferro e fuoco Parigi e l’Inghilterra celebrava il Royal Wedding, due grandi case di produzione cinematografica si spartivano i diritti del genere più inflazionato degli ultimi 20 anni, il cinecomic. Da una parte i Marvel Studios, che nel pieno della Fase 3 del MCU messo in piedi dieci anni prima, volavano verso il trionfale gran finale della Saga dell’Infinito con Infinity War ed Endgame. Dall’altra parte la Warner Bros./DC, che dopo i disastri Man of Steel, Suicide Squad e Dawn of Justice completava il proprio suicidio artistico con Justice League. Per questo motivo, dopo che la Marvel ha licenziato James Gunn dalla regia del film Guardiani della Galassia Vol.3 a causa di alcuni alcuni vecchi tweet politicamente scorretti – riesumati da esponenti della destra alternativa americana pro Trump – la Warner/DC in evidente crisi di identità non ci ha pensato due volte ad assumerlo dandogli completa carta bianca per scrivere e dirigere The Suicide Squad – Missione Suicida (da qui in avanti, solo The Suicide Squad).
E cosa poteva venir fuori da un regista che, con i Guardiani della Galassia, aveva ottenuto il miglior risultato possibile dal compromesso tra marketing, PG-13 e libertà registica, portando originalità e autorialità in un prodotto su commissione ad alto budget? Non solo il miglior film (per distacco) del DCEU ma un vero e proprio capolavoro di genere.
Warner Bros. presents: i primi dieci minuti del film
La pellicola si apre con la diabolica Amanda Waller (Viola Davis) che arruola alcuni criminali imprigionati nel carcere di massima sicurezza di Belle Reve per andare in una missione suicida sull’isola di Corto Maltese, governata dal dittatore Silvio Luna e dal suo braccio destro Mateo Suarez. La Waller promette uno sconto sulla pena di dieci anni in caso di buona riuscita della missione ed impone a ogni membro della Suicide Squad, per evitare ribellioni, di farsi impiantare un esplosivo alla base del proprio cranio. La squadra, capitanata dal colonnello Rick Flag, è composta dalla psicopatica Harley Quinn, il rapinatore Capitan Boomerang, l’inesperto sicario Blackguard, il sicario Savant, l’ex atleta olimpico Javelin, il metaumano T.D.K, l’aliena Mongal e la donnola antropomorfa di nome Weasel.
Si dice che i primi dieci minuti di un film ne determinino tutto l’andamento, e The Suicide Squad non fa eccezione. L’inizio del film vede l’improbabile squadra di anti-eroi raggiungere la spiaggia di Corto Maltese a nuoto, dopo essersi lanciata da un elicottero, e venire annientata dall’esercito nemico in una scena stile sbarco in Normandia. Nella battaglia quasi tutti i membri del team muoiono, persino Savant (interpretato dall’attore feticcio di Gunn Michael Rooker), un personaggio calcolatore, serioso e che durante le prime scene aveva dato l’impressione di essere il più inscalfibile, decide di scappare urlando dopo aver assistito alla carneficina, venendo ucciso dalla Waller che attiva l’esplosivo. I suoi resti, poi, vengono mangiati da un uccellino della stessa razza di quello che aveva ucciso senza motivo in apertura del film (ah, il karma), e il suo sangue forma la scritta “Warner Bros presents.” aprendo i titoli di testa.
“Viva Corto Maltese!”
Si scopre quindi che il piano della Waller era creare un diversivo, facendo sbarcare su Corto Maltese una squadra composta dai personaggi a suo parere più sacrificabili, in modo che una seconda squadra, composta dai protagonisti del film, potesse avere campo libero.
James Gunn gira un film geniale nella sua follia e una personale versione dei war movie anni ’70-’80, che strizza l’occhio a tante pellicole cult come Rambo o Apocalypse Now con continue citazioni nello script e un’ambientazione tropicale, l’isola di Corto Maltese, che ricorda la giungla del Vietnam. Isola già citata al cinema da Tim Burton nel suo Batman del 1989 e che nei fumetti DC, è ubicata al largo del Sud America, e vede lo scontro fra il governo locale – spalleggiato dagli Stati Uniti – e un gruppo di ribelli appoggiato dall’Unione Sovietica. La scelta di questo scenario non è casuale: Gunn gira un film scanzonato e divertente, ma con un profondo sottotesto socio-politico.
The Suicide Squad funziona sotto tutti i punti di vista. La regia è frenetica e adrenalinica, ma l’azione e i tanti combattimenti sono resi alla perfezione e tutti ben diretti. La messa in scena è curata in ogni minimo dettaglio e gli effetti visivi, tremendamente realistici, non sono mai invadenti. Inoltre, Gunn regala delle vere e proprie lezioni di stile dietro la macchina da presa, come il flashback di Ratcatcher II perfettamente inserito in un finestrino di un autobus o lo scontro tra Rick Flag e Peacemaker, riflesso sull’elmo di quest’ultimo. Ma la vera forza del film sta nello script (sempre a firma di James Gunn) che riesce nel compito di delineare bene tutti i personaggi, anche quelli secondari, dando loro motivazioni credibili, curando l’enorme quantitativo di dettagli senza mai annoiare o dilungarsi. E in un film corale come The Suicide Squad, questo aspetto è fondamentale. Ogni protagonista ha una caratteristica unica e un background solido, che lo rendono credibile agli occhi dello spettatore che è quindi portato spontaneamente ad immergersi nelle dinamiche di gruppo. Il livello di coinvolgimento degli attori è sorprendentemente alto, perché anche loro liberi di esprimersi in un blockbuster critico nei confronti della società e del governo, violento, e politicamente scorretto sotto tutti i punti di vista.
Il lieto fine per i sei personaggi in cerca d’autore
A differenza del film del primo Suicide Squad diretto da David Ayer, in cui i protagonisti capitanati da Will Smith non passavano cinque minuti senza ricordare quanto fossero cattivi, Gunn mette in scena un gruppo di outsider emarginati. I sei anti-eroi del film sono completamente folli, ma hanno tutti delle storie interessanti, ennesima dimostrazione di come il regista conosca a mena dito i fumetti e i suoi protagonisti. Bloodsport (Idris Elba) è un Deadshot meno melenso e decisamente più cinico che si riscopre genitore relazionandosi con Ratcatcher II (Daniela Melchior) che ha un potere e un background incredibile. Polka-Dot Man (David Dastmalchian) è un personaggio tutt’altro che semplice da trasporre in un film, specie come protagonista e non come spalla. A livello visivo la gag ripetuta in diversi momenti in cui vede sua madre ovunque potrebbe sembrare grottesca e fuori contesto, ma arriva coi tempi comici giusti risultando sempre divertente.
Chiudono il cerchio Peacemaker (John Cena, ennesimo wrestler che non sfigura di fianco ad attori di professione), un repubblicano reazionario (gli manca solo il berretto “Makes America great again”) per preservare la pace giustifica sacrifici e morte, l’amorevole King Shark (Sylvester Stallone) vero cuore della squadra alla ricerca di una famiglia, e Harley Quinn (Margot Robbie) a cui James Gunn ha trovato finalmente la giusta collocazione nell’universo DC, dimostrando di aver capito la vera essenza del personaggio. Harley Quinn non è più un’eccessiva macchietta, ma ha anche dei momenti che la caratterizzano. Ne è un esempio il discorso che fa al dittatore Silvio Luna con cui si emancipa, che potrebbe sembrare sconclusionato ma che ha perfettamente senso. O la scena di combattimento, girata sulle note di Just a Gigolo/I Ain’t Got Nobody con un espediente visivo allucinante e coi rallenty nei tempi giusti, durante la quale lo spettatore percepisce tutta la sua follia mentale.
Tutti i personaggi, anche quelli secondari, riescono a ritagliarsi il proprio spazio e ad avere il proprio momento, grazie alla capacità del regista di inquadrarli in pochi secondi. Succede nel caso dei componenti della prima squadra con la propria morte, unica e particolare, ripresi a uno a uno da Gunn nei titoli di testa. Oppure con Ratcatcher I (Taika Waititi) che nonostante appaia in due scene in croce lascia un forte segno nella storia. Di fronte a tutte queste personalità incredibili chi perde un po’ di interesse è il capitano Rick Flag (Joel Kinnaman), che risulta tuttavia funzionale alla trama nel momento del plot twist finale (“Noi serviamo lo stesso padrone”).
“Ero felice, veleggiavo, guardavo le stelle”
Il vero colpo di genio però arriva con il villain, Starro il Conquistatore. Se rendere protagonisti un insieme di antagonisti era difficile, pensate cosa poteva essere rendere credibile come minaccia una stella marina aliena gigante. Eppure Gunn, scena dopo scena, ha costruito il momento in cui lo spettatore finalmente lo vede apparire. Durante tutto il film si conosce la sua presenza, ma solamente alla fine appare, e in quel momento è credibile anche come pericolo. Starro non è un personaggio che si può inserire facilmente, aveva bisogno di un film sufficientemente folle da non far sembrare folle una stella marina di dimensioni gigantesche con un grande bulbo oculare che controlla le menti.
Il personaggio è reso credibile a livello di storia, ma anche grazie a degli effetti speciali sensazionali (e se pensate che non ci si debba sorprendere più per blockbuster di questo tipo andate a rivedervi la CGI di Wonder Woman 1984, uscito pochi mesi fa).
Con The Suicide Squad, James Gunn dimostra di essere un vero appassionato del mondo del fumetto. Lo fa a livello di storyboard, dividendo la narrazione in capitoli ideali con i titoli inseriti negli ambienti circostanti, e di scrittura, quando con una riga di sceneggiatura all’inizio del film risolve l’amletico dubbio sequel/reboot.
Ci sono due tipi di cinecomic: quelli fatti bene e quelli fatti male
Il regista non mette mai il piede sul freno, anzi, spinge forte sull’acceleratore lungo tutti i 132′ di durata del film, facendolo correre su binari tutt’altro che convenzionali. A differenza dei Guardiani della Galassia in cui si era preso pochi rischi inserendo pochissime gag al limite del target, in The Suicide Squad tutto è eccessivo, il sangue schizza che è un piacere e le battute volgari non si contano. I due film sono quindi difficilmente raffrontabili perché pensati per due tipi di spettatori differenti (le famiglie da una parte, un pubblico più adulto dall’altra). Però è lo stesso Gunn. Perché se avesse avuto la medesima libertà con la Marvel ci sarebbero state molte più battute adulte oltre alla scopa nel culo (Gamora) nel primo film o la sorpresina sotto il cuscino (Rocket) nel secondo.
Con i Guardiani della Galassia Gunn è riuscito a tirare fuori il meglio da un prodotto su commissione. Perché nel 2021 non arriverà più il George Lucas di turno, capace di inventarsi da zero una storia, di portarla sul grande schermo e di influenzare generazioni. L’unico modo di fare qualcosa di nuovo, è muoversi nel (poco) margine di spazio che chi ti da i soldi ti fornisce. In questo senso The Suicide Squad è la massima espressione della poetica di Gunn, il meglio di tutto ciò che ha fatto perché ha avuto la possibilità di fare quello che voleva e arrivare a più gente possibile grazie alla grande distribuzione che c’è dietro questo progetto.
Sapendo di avere fallito nel tentativo di scimmiottare la Casa delle Idee e il suo universo condiviso riuscendo a perdere il campionato con una squadra di campioni (Batman, Superman, Wonder Woman) ha deciso di rischiare e ha stravinto con “a bunch of A-holes”, anti-eroi molto poco credibili in partenza. James Gunn ha dimostrato che i cinecomic non si dividono in Marvel e DC, ma in film fatti bene e male. Perché prima di essere bel cinecomic, The Suicide Squad è proprio un bel film perché usa il genere per dire altro. La speranza è che la Warner/DC abbia il buon senso di fare con Gunn quello che ha fatto con Snyder, affidandogli le sorti del DCEU e carta bianca per realizzare qualcosa di speciale.