È molto difficile, oggi, fare un film supereroistico in grado di scuotere davvero i canoni. Quando ci sono le major di mezzo, diventa complesso lasciare un segno; tanti soldi, tempo e aspettative in ballo. D’altro canto, ognuno prova a farlo.
Sin dal primo capitolo della saga, Venom tenta di prendere una precisa direzione, fra l’irriverenza meta cinematografica di Deadpool e lo spirito camp e infantile di Kick-Ass. Il secondo film, La Furia di Carnage, diretto da Andy Serkis, è decisamente meglio strutturato del primo, ma i personaggi principali presentano gli stessi difetti, andando a inficiare sul risultato finale.
Questione di potere
Interessante la scelta di inserire il serial killer, Cletus Kasady, come antagonista principale del film, interpretato da un Woody Harrelson in salsa romantica che richiama una versione invecchiata del co-protagonista di Natural Born Killers (per non citare l’ovvio Hannibal Lecter de Il Silenzio degli Innocenti). Eppure l’assassino in carcere da tutta la vita appare un oppresso dal sistema in una situazione ben peggiore del protagonista che, tutto sommato, soffre solo per via di una carriera un po’ zoppicante.
È una versione molto differente rispetto al personaggio dei fumetti (qui la sua storia per chi avesse bisogno di rinfrescarsi la memoria), ma il rapporto di potere fra lui e Eddie/Venom è fortemente sbilanciato in favore di quest’ultimo.
Per quanto pazzo e palesemente pericoloso, il serial killer nel braccio della morte rischia di fare più simpatia del giornalista pigro il cui problema principale quando si sveglia la mattina è scegliere la maglietta di quale band anni ’80 indossare. Oltre a litigare con il simbionte alieno che abita in lui, ovviamente.
Accanto a lui, l’amore della sua vita, anche lei vittima di ingiustizie sin dalla più tenera età, la superdotata Frances Barrison (aka Shriek) interpretata da Naomie Harris, che nonostante le premesse e i poteri spettacolari viene sfruttata poco.
Questione di motivazione
Eddie, eroe della storia, manca di motivazione. Dall’inizio alla fine del film non si capisce cosa voglia; inoltre l’avventura che vive non sembra cambiarlo. Mentre nel caso dell’alieno Venom, bisogni e desideri sono chiari, pare che Eddie venga trascinato in un posto all’altro dalle circostanze mentre gli “capitano cose”. Per carità, l’intera trama del primo Die Hard è strutturata in questo modo, ed è poco probabile che potendo scegliere John McClane avrebbe passato la vigilia di Natale ad ammazzare terroristi camminando scalzo fra i frammenti di vetro del Nakatomi Plaza.
Eppure quello che capita intorno al protagonista in un film di questo tipo, in qualche modo lo deve coinvolgere e motivare, cosa che in questo caso capita poco.
Eddie Brock, perennemente succube del simbionte e difficile da collocare, risulta piuttosto noioso, quasi quanto i commenti di sarcastici di Venom (arrivati a quota 5 al minuto possono risultare indigesti e prevedibili).
La sua ex compagna e principale alleata, Anne Weying (Michelle Williams), somiglia più alla sua balia, visto come si occupa di lui e di tutto quello che fa per pura bontà d’animo. Il tutto coinvolgendo il nuovo fidanzato di lei, Dan Lewis (Reid Scott); il premio per la coppia più santa e disinteressata va a loro, nonostante gli sfottò di Venom e il disprezzo di Eddie.
Però la fotografia è bella
Gli effetti visivi di questo secondo capitolo sono ottimi, così come le scene d’azione, divertenti e ben coreografate. Questo commento su un film supereroistico non è scontato, ma suona un po’ come quando si dice di un film che “la fotografia è bella” per evitare di commentare il resto. Almeno siamo lontani dal design della prima versione di Sonic o dagli effetti visivi di Wonder Woman 1984.
Sicuramente non basta a decretare la bontà del film, ma aiuta, come la durata (solo 97 minuti!) a digerirlo meglio.
Era indispensabile?
Non esiste nulla di indispensabile, e diciamo che quando si parla di film d’intrattenimento di largo consumo è superficiale pretendere qualcosa di più di un’oretta e mezza di svago. D’altronde, lo svago può avere un suo spessore o essere, se non altro, inaspettato. Non è questo il caso, nonostante la scena post credits del film, che tanto sta facendo discutere in rete, possa essere considerata indispensabile in un’ottica più grande (evitando di essere più specifici).
La struttura di questo film è piuttosto classica, i personaggi non sono sviluppati e lo svolgimento è piuttosto prevedibile. Alcuni degli elementi potrebbero risultare divertenti e soddisfacenti abbastanza da perdonare i difetti del film, non resta che andare in sala e giudicare da sé.