Decifrare la filmografia degli ultimi dieci anni di Kenneth Branagh è veramente complesso. Il regista nordirlandese è passato da lavori su commissione Disney tutt’altro che memorabili (Thor, Cinderella, Artemis Fowl) a blockbuster ambiziosi (Jack Ryan: l’iniziazione, Assassinio sull’Orient Express), pellicole molto lontane dal cinema a cui ci aveva abituato nella prima parte della sua carriera. Branagh ha esordito dietro la macchina da presa nel 1989 con Enrico V, film tratto dall’omonima opera, in cui veste i panni del re d’Inghilterra, un ruolo che aveva già interpretato per la Royal Shakespeare Company e che gli aveva assicurato, a soli ventitré anni, un posto fra i migliori talenti del palcoscenico britannico. Negli anni successivi, Branagh ha continuato ad esplorare altre ambientazioni shakespeariane (Molto rumore per nulla, Hamlet, Nel bel mezzo di un gelido inverno, As you like it) e la strada che ha deciso di intraprendere dal 2010 a oggi, dirigendo film di scarsa qualità e privi di significato, è davvero di difficile interpretazione per un grande artista come lui. Finalmente, con Belfast possiamo dargli il ben tornato.
Belfast, 1969
La capitale nordirlandese sta affrontando il suo periodo più buio, gli anni cosiddetti “The Troubles“. Alla fine degli anni ’60 ha infatti inizio il conflitto etnico-nazionalista tra cattolici e protestanti che, ad oggi, ha causato oltre 3500 morti. Il giovanissimo Buddy (Jude Hill) vive una vita spensierata insieme alla madre (Caitríona Balfe), al fratello (Lewis McAskie) e ai suoi nonni (Judi Dench e Ciarán Hinds). Il padre del piccolo (Jamie Dornan), invece, lavora in Inghilterra e fa visita alla famiglia ogni due settimane. In una situazione familiare non delle più semplici (assenza della figura paterna, presenza di debiti con le banche) insorge la guerriglia urbana dovuta agli scontri violenti tra cattolici e protestanti, che costringe la famiglia a prendere una posizione che cambierà per sempre la loro vita.
Con Belfast, il regista non firma solamente il suo lavoro più personale e sincero (Buddy è l’alter ego del regista), ma un vero e proprio gioiello cinematografico. Branagh pur girando il film a cuore aperto dimostra maturità ed equilibrio, dosando saggiamente una sceneggiatura divertente ma mai eccessiva, che ci racconta un periodo così difficile dal punto di vista di un bambino.
Everlasting Love
Visivamente, il film è superlativo: la fotografia di Haris Zambarloukos riesce a catturare perfettamente ogni dettaglio e l’utilizzo del bianco e nero focalizza l’attenzione sul contenuto. Belfast è un atto d’amore verso l’omonima città, ma anche nei confronti del teatro e del cinema. Non è un caso che gli unici momenti in cui il film si permette, all’interno della narrazione, uno sprazzo di colore siano quelli ambientati in un teatro o in una sala cinematografica.
Tutto il cast dimostra una grande bravura, ma emergono in particolare tre grandissime performance che donano al film un immenso valore aggiunto: il giovane Jude Hill, che al suo esordio dimostra una maturità nella recitazione incredibile; Caitríona Balfe, che sorprende per l’intensità nel ruolo nonostante non sia attrice di formazione; e Judi Dench, che regala l’ennesima interpretazione da pelle d’oca.
Da Belfast a Los Angeles
Belfast ricalca in pieno la formula di Roma, di Alfonso Cuarón, vincitore di ben tre premi Oscar nel 2019. Entrambi sono film intimi e personali girati in bianco e nero sullo sfondo della grande Storia. Se questa ricetta si rivelerà vincente lo scopriremo solo il prossimo 27 marzo, quando a Los Angeles saranno assegnate le prestigiose statuette. Ad oggi rimane un grandissimo film, capace di arrivare allo spettatore colpendolo nel profondo: un film fatto di emozioni e di sguardi, come suggellato dall’ultima inquadratura, un intenso primo piano.
Open up your eyes, then you realize / Here I stand with my everlasting love