Presentato alla 78esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, È stata la mano di Dio ha fatto immediatamente parlare di sé. I film di Paolo Sorrentino, in realtà, hanno sempre destato un certo tipo di fascinazione sia nel pubblico che nella critica, complici anche le varie onorificenze negli anni, e lo stile autoriale a contraddistinguerle. Quando si parla dei film di questo regista si parla quasi sempre di visioni personalissime, di vere e proprie reinterpretazioni intime del reale, contraddistinte anche da un certo tipo di citazionismo cinematografico, ma sempre delineate da un’identità netta. È proprio questa identità che ci attrae o repelle, che ci affascina o allontana irreversibilmente, in una produzione cinematografica che continua ad avanzare per la propria strada, indifferentemente dalle voci e dai commenti tutt’intorno.
Quest’ultima fatica di Sorrentino resta coerente con ciò, con la carriera cinematografica stessa del suo regista, arrivando a toccarne le corde più personali e intime, quelle stesse corde difficilmente raggiungibili e rappresentabili se non attraverso un desiderio, una voglia di tirarle fuori davanti a coloro disposti a vederle. Il Leone d’argento – Gran premio della giuria (premio conferito alla regia, importantissimo all’evento della mostra di Venezia) ha nuovamente elevato la suddetta visione, aprendo quindi al lavoro di Sorrentino. Questa è disponibile in sala dal 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre.
Autobiografia intima
Nel presentare È stata la mano di Dio una frase fra tutte ha spinto in avanti la sua campagna pubblicitaria: “Sorrentino ha tirato fuori un’opera estremamente intima, forse la sua più personale”. Da ciò sia le critiche che le lodi. Curiosamente un approccio commerciale del genere ha perfettamente senso in questo caso, dato che stiamo parlando di una pellicola autobiografica attraverso cui il regista stesso ci racconta un frangente della sua vita, un momento parecchio pesante della sua esistenza adolescenziale, cercando forse di esorcizzarlo traendone qualcosa anche per se stesso. Il fatto di esporsi in questo modo, di parlare della propria vita in presa diretta, soprattutto in relazione al materiale trattato (non faremo spoiler per non rovinarvi la visione) diventa ben presto uno dei tratti più sensibili e delicati dell’intera storia, dell’intero film, una scelta che sicuramente avrà richiesto uno sforzo considerevole in ambito creativo e personale.
La trama si origina in questa Napoli degli anni ’80, una Napoli in fermento per qualcosa che potrebbe accadere o meno in relazione alla squadra di calcio della città. Maradona arriverà al Napoli? Questa è la domanda di apertura della pellicola. Sorrentino però non concentra il proprio lavoro intorno a Maradona, intorno a questo giocatore leggendario, ma su tutt’altre dinamiche. L’arrivo di questo giocatore viene quindi rielaborato in una sorta di “voce” o “presenza” che aleggia nel corso di ogni singolo evento, arrivando continuamente a sfiorare e colorare le reali dinamiche di trama. Maradona c’è e non c’è, in un continuo “vedo non vedo” che si fa cornice. In questo clima d’attesa troviamo Fabio Schisa (Filippo Scotti, alter ego del regista stesso), un giovane ragazzo che deve ancora trovare la propria strada, il proprio posto nel mondo. Con lui la sua famiglia, i parenti e la città stessa. Fondamentale nella rappresentazione degli eventi è appunto Napoli, la Napoli di Fabietto con tutte le sue piccolezze, incoerenze, speranze, ma anche problematiche e dinamiche personali. Ne fuori esce un affresco cittadino misto a un romanzo di crescita, in cui il protagonista stesso si muove, osserva e tenta di originare la propria voce. Fuso a tutto ciò il Maradona che ispira il titolo stesso, una speranza che unisce l’intera città, sempre sulla bocca di tutti e elemento narrativo centrale in uno dei momenti più intimi del film stesso.
Ecco che È stata la mano di Dio si tramuta in un vero e proprio viaggio ispirante sensazioni di nostalgia, ma anche di distacco. Fabietto si fa testimone di tantissimi elementi con cui tutti quanti hanno fatto i conti prima o poi: l’amore, la prima volta, l’amicizia… Testimone perché non si espone mai veramente e totalmente, preferendo trarne qualcosa che custodisce per se stesso, in quello sguardo che ingloba ogni cosa nei silenzi di una melodia cittadina che lo insegue continuamente.
Quindi?
Nel guardare È stata la mano di Dio è impossibile non fare dei confronti con il cinema di Fellini (in particolare con “I Vitelloni” per alcune scene), o con quello di Troisi (Sorrentino stesso ha riportato in un’intervista che si è rifatto maggiormente a quest’ultimo artista). Il film di per sé mantiene dall’inizio alla fine un linguaggio tutto suo sfruttando una regia fatta di silenzi e dolci movimenti di camera. Sul piano figurativo nulla da dire, la sontuosità che Sorrentino ha dimostrato anche in passato resta immutata. Per quanto concerne il resto è giusto parlare di un vero e proprio ibrido narrativo visivo, anche perché il regista parla moltissimo anche attraverso le immagini, attraverso il modo in cui cattura Napoli, il suo mare, le sue strade, i suoi muri, i suoi angoli e la sua lingua. La rielaborazione personale diventa un valore aggiunto in questo dipinto, in questo spaccato adolescenziale di maturazione che parla senza parlare.