“These violent delights have violent ends.”
Già prima del suo debutto Westworld – Dove tutto è concesso aveva creato molte aspettative, vista la trama, il cast (Anthony Hopkins, Ed Harris, Evan Rachel Wood, per citarne solo alcuni), la regia, i produttori esecutivi e gli sceneggiatori (Jonathan Nolan, Lisa Joy, J. J. Abrams. Jerry Weintraub e Bryan Burk). Sembrava proporre una trama semplice: l’uomo che gioca a fare Dio piegando la natura al suo volere fino a che le sue creazioni non gli si rivoltano contro. Fin troppo semplice e scontata, e infatti Westworld non è stato questo ma molto di più.
Di serie tv così articolate e complesse ne abbiamo viste poche, anzi oserei dire nessuna. Un dedalo intricato di diverse linee spazio-temporali, storyline, loop e flashback capaci di spaesare chiunque, ma con l’astuzia di saper catturare lo spettatore che viene assorbito piano piano dal misterioso labirinto senza vederne più l’uscita, e scosso da scioccanti colpi di scena che stravolgono tutto e ribaltano le carte in tavola.
I piccoli numerosi dettagli disseminati qua e là fin dal primo episodio (come per esempio la foto trovata dal padre di Dolores appartenente a William) nel finale di stagione The Bicameral Mind, si sono riuniti tutti per dare vita ad una trama molto convincente e credibile. Il cerchio si chiude meglio di come ci aspettavamo.
Il labirinto è la parola chiave e il tema centrale dell’intera struttura della serie. Il futuristico parco a tema di Westworld si è presentato come un’esperienza che permetteva al visitatore di intraprendere un viaggio alla scoperta di stesso, portando alla luce la propria vera natura. E’ a questo che aspirava William (Jimmi Simpson) che per 35 anni, nei panni misteriosi dell’Uomo in Nero (Ed Harris), ha condotto la sua personale ricerca del labirinto. Ha cercato in tutti i modi di portare gli host a scardinarsi dalla loro programmazione e ribellarsi al volere del loro creatore per spingere il gioco ad un livello superiore, più intenso, avvincente e mortale. Ora è chiaro, il compiacimento nella scena finale, nel vedere un’orda di attrazioni fuori controllo pronti alla rivoluzione, ci dimostra che ha raggiunto il suo scopo, e finalmente ha scoperto se stesso, anche se in maniera diversa da come si era aspettato. Sapeva che per arrivare al centro del labirinto aveva bisogno di Dolores (Evan Rachel Wood), ma gli è sfuggito un piccolo particolare: il parco non è stato costruito per gli uomini ma per i robot. Non era lui a dover trovare il labirinto, ma Dolores. Un viaggio che sapevamo già non essere fisico ma mentale, all’interno di se stessi per raggiungere l’auto-consapevolezza.
Il Dr. Ford (Anthony Hopkins) finalmente ci svela cosa si nasconde dietro all’avveniristico progetto di Westworld, e del motivo della rottura con il suo socio Arnold. Per tutta la serie gli sceneggiatori Jonathan Nolan e Lisa Joy ci hanno fatto credere che i due avessero intenti diversi, accomunati però da evidenti deliri di onnipotenza. Ora scopriamo invece che in realtà puntavano allo stesso fine, il crollo della mente bicamerale per generare la coscienza dei robot, ma non concordavano sulle tempistiche per raggiungerlo. Nel momento in cui si arriva alla conclusione che le voci interiori che suggestionano la folle mente umana non provengono da un dio, o da un creatore o da un entità suprema, ma provengono da noi stessi, e che quindi la voce che sentiamo è la nostra, solo in quel momento raggiungiamo l’autocoscienza e possiamo considerarci liberi. Questo era l’obbiettivo che Ford e Arnold volevano far raggiungere alle loro creazioni. Arnold pensava che gli androidi fossero già pronti all’epoca della vigilia dell’inaugurazione del parco e che quindi non poteva essere aperto al pubblico; al contrario Ford credeva che avessero bisogno ancora di tempo per “crescere” e maturare. Il parco-labirinto li avrebbe condotti gradualmente al centro, cioè loro stessi, e la memoria del dolore e della sofferenza avrebbe innescato il processo di auto-svelamento che li avrebbe portati ad un presa di coscienza. E così è stato.
L’intera serie, ma soprattutto questa ultima puntata di 90 minuti, è piena di colpi di scena e rovesciamenti narrativi. Pensavamo che il parco fosse per gli uomini invece era per gli host; pensavamo ad una rivoluzione degli androidi guidata da un’indipendente Maeve e invece è stata ordita dagli stessi creatori; pensavamo che Ford fosse il cattivo della storia e che si contrapponesse ad Arnold e invece ci rendiamo conto che il loro scopo era lo stesso.
La serie sembra chiudersi perfettamente, dando un finale esaustivo, tutto si è risolto e le vere intenzioni sono state rivelate. Se la serie dovesse finire con questa prima stagione probabilmente ne saremmo appagati comunque, ma sappiamo già che ce ne sarà una seconda e l’ultimo episodio ovviamente lascia indizi per un finale aperto. Abbiamo scoperto una sezione privata che ospita host samurai, ciò presume un cambio di scenario nella prossima stagione in un Medioevo giapponese. La serie potrebbe riprendere l’idea del film dalla quale è tratta, ma sviluppandola in maniera diversa. Ricordiamo che nel film, Il mondo dei robot (Westworld) del 1973 di Michael Crichton, il parco era diviso in tre ambientazioni: Antica Roma, Medioevo e Far West. Inoltre abbiamo assistito solo all’incipit di una rivolta che si prospetta sanguinosa, e della quale sapremo di più solo nel 2018, vista la mole di lavoro e tempo che un’opera così ambiziosa richiede.