Prima della supremazia di Internet nelle nostre vite, per vedere un film in home video ogni volta diverso a prezzo modico esistevano le videoteche, delle piccole oasi dove andare a recuperare, scoprire o riscoprire film più o meno celebri e più o meno riconosciuti.
Per chi se lo ricorda, la ben nota serata “pizza-film” era preceduta dal dilemma della scelta del film, ambientato proprio tra le mura della videoteca, dove con gli amici si formava un piccolo concilio per arrivare alla scelta finale, talvolta quando si brancolava nel buio ci si avvicinava alla cassa alla ricerca di un consiglio. Ebbene, dato che noi siamo degli inguaribili nostalgici ci caleremo nei panni del commesso della videoteca pronti a consigliare un film da vedere o rivedere, allegando tutte le motivazioni per cui varrebbe la pena seguire il consiglio.
Caso vuole che colui che diventerà tra i più grandi registi contemporanei abbia proprio lavorato in una videoteca, dove ha maturato il suo viscerale amore per il cinema, amore che emerge in ogni sua singola opera.
Nel pensiero comune i film di Quentin Tarantino sembrano quasi tenuti chiusi in una scatola, nascosti, anche se non troppo, pronti da tirar fuori solo su specifica richiesta. I suoi film sono tra i pochi che sanno occupare così bene il posto che sta tra i film d’autore e la cultura di massa; emblema di questa poetica è forse il film simbolo di questo brillante autore, una pellicola divenuta un cult non appena fu proiettata nelle sale nel 1994: ovviamente si sta parlando di Pulp Fiction.
Chi non conosce la scena del ballo tra Uma Thurman e John Travolta – alias Mia Wallace e Vincent Vega – o la dubbia citazione biblica di Ezechiele 25:17? Come anche i gangster in giacca e cravatta nera o l’inconfondibile soundtrack dei titoli di testa?
Non a caso Pulp Fiction si guadagnò l’immediato consenso del pubblico oltre alla Palma d’Oro al Festival di Cannes e 7 nomination agli Oscar, vincendone però solo uno, come migliore sceneggiatura originale. Infatti le statuette come miglior regia e miglior film gli furono soffiate via da Forrest Gump di Zemeckis, una scelta che, col senno di poi, sembra quasi inconcepibile, ma di certo non inaspettata: si potrebbe dire che per l’Academy Pulp Fiction è stato un po’ come il partner che si decide di lasciare perché non piace ai genitori. Troppo crudo, troppo sporco, troppo poco “per bene” per guadagnarsi il massimo riconoscimento dall’America “da bene” di allora, se si capisce cosa intendiamo.
Nonostante ciò questo film si è guadagnato un posto d’onore nella storia del cinema.
Inutile dire che Pulp Fiction è quindi un film che non solo andrebbe visto almeno una volta nella vita ma che dopo i titoli di coda si vorrebbe subito rivedere da capo.
“È la personalità che cambia le cose”
Giusto per dimostrare che il talento non si compra, un buon film deve essere prima di tutto scritto bene. La sceneggiatura, infatti, è a dir poco sublime, di certo ricavata da diversi soggetti giovanili messi poi insieme per creare un film corale dislocato in più storie parallele.
La suddivisione in capitoli è un must di Tarantino ma è la distribuzione dell’intreccio a rendere il tutto interessante e mantiene alta l’attenzione. Ogni capitolo è esattamente al posto giusto: ciò non significa che il “posto giusto” debba necessariamente seguire l’ordine logico e cronologico della narrazione.
Il regista non ha certo dislocato a caso i vari capitoli ma li ha bilanciati tra loro in base a fattori come il ritmo o il vero ruolo che vuole dare ai suoi protagonisti. Il tutto è orchestrato con una cadenza ineccepibile. Diffidate da chi vi dice “non ci si capisce niente, prima un tizio è morto, poi è vivo”, se le vicende sono narrate in un certo modo un motivo ci sarà: provate solo a vedere i capitoli in ordine cronologico, vi sembrerà di aver mutilato il film. Questo è un buon esempio di dimostrazione della capacità narrativa del solo montaggio, senza dover per forza analizzare una singola scena fotogramma per fotogramma, cosa che si potrebbe fare tranquillamente con ogni singola sequenza del film.
“Sai come chiamano un quarto di libbra con formaggio a Parigi?”
Dialoghi brillanti. Marchio di fabbrica inconfondibile del primo periodo di Tarantino. La conversazione tra Jules e Vincent in macchina ha uno stile simile al discorso di apertura de Le Iene sul significato di Like a Virgin.
I dialoghi sono dinamici, fluenti e coinvolgenti. La conversazione riguardante le “piccole differenze” tra Stati Uniti ed Europa non sembra avere un vero scopo ai fini della trama, si mostra potenzialmente inutile ma è forse una delle scene che meglio si ricordano del film. Si potrebbe quasi azzardare che strizza un po’ l’occhio alla dottrina dell’avanguardia francese della nouvelle vague, dove il futile diventa necessario.
Tecnicamente Vincent e Jules stanno parlando del nulla ma in realtà stiamo già conoscendo i personaggi intuendo la complicità tra i due e subito ci affezioniamo a loro, la cosa può portare a disorientare leggermente perché non ci vorrà molto per capire che i due sono dei malavitosi della peggior razza. Sappiamo che sono dei personaggi negativi, ma non possiamo fare a meno di simpatizzare per loro. A prescindere dal loro mestiere, sono solo persone a cui piace parlare del più e del meno e spettegolare sul loro capo.
“I silenzi che mettono a disagio”
Il capitolo centrale è indubbiamente l’apice del film. La sequenza al ristorante con Mia Wallace e Vincent Vega è scolpita nella storia. Proprio qui la splendida Mia – interpretata dalla musa di Tarantino, Uma Thurman – riflette sulla strana necessità di dover parlare del nulla perché il silenzio è fin troppo impegnativo; un pensiero incredibilmente profondo e quasi destabilizzante nel contesto nel quale viene introdotto, ma lo stesso personaggio di Mia è un qualcosa di destabilizzante.
Lo strano gesto che fa Mia mentre disegna un rettangolo immaginario non sembra avere uno scopo preciso ma improvvisamente riporta lo spettatore con i piedi per terra: quasi come un’indiretta rottura della quarta parete, quel rettangolino disegnato sullo schermo ci ricorda che stiamo vedendo un film, che è tutta finzione e che comunque ci sarà sempre uno schermo che ci divide dai protagonisti della vicenda.
Mia viene presentata immediatamente come una sorta di femme fatale: ne sentiamo prima la voce, poi ne vediamo solo le labbra e i piedi nudi – parte del corpo che il regista ha più di una volta affermato di apprezzare nelle donne – la donna è quindi emblema di sensualità, anche se è vestita con abiti prettamente maschili, cosa che però la rende ancora più affascinante.
Vincent e Mia flirtano per tutta la serata e l’uomo crede che lo scoglio da superare sarà riuscire a non fare qualcosa che lo metterebbe nei guai, ma il destino è sempre in agguato e più che preoccuparsi di non provarci con la moglie del capo dovrebbe preoccuparsi di portarla a casa viva e vegeta.
La seconda parte del capitolo diventa qualcosa di frenetico, a tratti comico ma di certo “adrenalinico”. La vicenda che si svolge a casa di Lance contiene un lungo piano sequenza, ossia la macchina da presa non stacca mai ma si muove per la stanza seguendo i personaggi: il non fare mai tagli dilata il tempo ma i continui movimenti di macchina trasmettono la frenesia dei personaggi coinvolti, tutto ciò fa percepire quanto abbiano il tempo limitato ed ogni secondo sembri un’eternità nonostante tutti quanti stiano agendo il più in fretta possibile. Il momento dell’iniezione è una sequenza montata magistralmente: quattro stacchi netti in cui viene mostrato perfettamente come la ragazza si alza, si gira e si rimette a sedere proprio nella parte opposta del salotto, il tutto in appena tre secondi di girato. Tecnicamente perfetto.
“È quello che penso che sia?”
Un buon film deve saper raccontare non solo con le parole, ma con tutti i mezzi di cui dispone. Pulp Fiction sa giocare con il montaggio, la messa a fuoco, la fotografia, il fuori campo o i movimenti di macchina sempre in maniera frizzante e dinamica. Tarantino sa bene come mostrare ma anche come non mostrare. Questo film raccoglie una serie infinita di dettagli o particolari, vale a dire l’inquadratura ravvicinata di una parte del corpo o di un determinato oggetto: per esempio le labbra di Mia, la siringa, il cucchiaio per l’eroina, il portafoglio di Jules, le chiavi di Zed. Si vede l’oggetto e si fissa come punto fermo nello svolgimento successivo della sequenza.
La stessa distribuzione dei personaggi sulla scena e il modo in cui vengono inquadrati ci dicono qualcosa di loro. Da notare come Jules e Vincent vengano quasi sempre ripresi dal basso, come se troneggiassero sulla scena, mettendoli in una situazione di superiorità, tranne quando sono in presenza di Marcelus – del quale inizialmente vediamo solamente la nuca regalandogli un alone di mistero – o del signor Wolf che invece è sempre posto in modo che possa essere il perno sul quale possa muoversi l’intera scena. Anche Vincent e Mia sono messi sullo stesso piano ma quasi sempre come se fossero due poli opposti, fronteggiandosi in un giochino intrigante del quale nessuno dei due parlerà mai ma del quale sono entrambi consapevoli.
Emblema assoluto del fuori campo immaginario è la famosa valigetta. Alcuni personaggi hanno il privilegio di vederne il fantastico contenuto, privilegio precluso allo spettatore. Nessuno dice mai cosa contenga la valigetta e la curiosità cresce man mano che questa si dimostra essere un’infinita serie di problemi. Cosa conterrà mai la valigetta? Qualunque cosa noi siamo in grado di immaginare. Di fatto niente riesce ad essere più coinvolgente di ciò che può stuzzicare la fantasia dello spettatore; tale contenuto non può deludere perché è sicuramente qualcosa di straordinario che tutti quanti vorrebbero.
“Ezechiele 25,17”
Magari tutti conoscono il monologo di Samuel L. Jackson ma in pochi sono andati a controllare se la citazione biblica sia esatta. In teoria tutti coloro che crescono in una società maggiormente di estrazione cristiana dovrebbero aver letto la Bibbia, in realtà non l’ha letta quasi nessuno. Alla domanda “leggi la Bibbia?” si potrebbe attribuire un valore simbolico del tipo: “sei davvero sicuro delle tue certezze?”, “sei davvero così devoto come vuoi far credere?”. Sotto una certa chiave di lettura questo film schernisce sfacciatamente il buonismo, tanto che le povere vittime prendono per autentico un passo biblico declamato da un gangster che gli punta una pistola contro.
Pulp Fiction è un film che si distingue per l’elegante maestria registica che non scade mai nel pretenzioso, mostrando una tecnica che in molti hanno provato ad eguagliare con scarso successo. Questo film ha quel non so che in grado di far innamorare, che non si perde in buonismi o espedienti scontati, un film a cui non serve una vera e propria morale della favola perché il vero messaggio sta tra le pieghe delle pagine, perché quel silenzio che mette a disagio ha già spiegato tutto.