La sezione Un Certain Regard del Cannes Film Festival è dal 1998 uno degli spazi più interessanti per trovare e scoprire una cinematografia fuori dal coro, capace di distinguersi per bellezza, e lo scorso maggio 2016 è proprio qui che ha debuttato La Tartaruga Rossa di Michaël Dudok de Wit (già noto per Father and Daughter, vincitore agli Accademy Awards come Miglior Cortometraggio Animato), guadagnandosi il Prix spécial du certain regard.
Questo film d’animazione dai toni fantastici è figlio di una produzione franco-belga-nipponica numerosa, tra cui spiccano Wild Bunch (Jackie), Why Not Pictures (Io, Daniel Blake) e Studio Ghibli grazie al coinvolgimento diretto di Toshio Suzuki, colui che nel 1985 finanziò la creazione del famoso studio d’animazione giapponese. La tartaruga rossa ha così partecipato (e sta ancora partecipando) a numerosi festival e quando a Dicembre si è distinto vincendo nella categoria Miglior Film d’Animazione al San Francisco Film Critics Circle e conquistando successivamente gli Annie Awards come Miglior Film d’Animazione – Indipendente; la sua nomination tra i candidati al Premio Oscar nella categoria Miglior Film d’Animazione era dovuta.
Certo, l’Oscar è stato vinto da Zootropolis, ma tanta visibilità ha fatto bene al film che arriverà nelle nostre sale solo per tre giorni – 27, 28 e 29 Marzo – ed è un appuntamento cinematografico che voglio raccomandarvi.
Una storia semplice
Il panorama dell’animazione – parlando in termini globali – con l’aiuto delle nuove tecnologie e un’interesse sempre più vivo nel genere, sta diventando più complesso. Più ricercato è il design che si sta legando inesorabilmente alla computer grafica e sempre più spesso peculiari diventano le storie, al passo con le tensioni, le esigenze e gli umori della nostra società. La Tartaruga Rossa però riesce a essere una storia coraggiosa, perché rimanda a un’animazione più primordiale, genuina e incredibilmente affascinante, partendo da un soggetto semplice.
Durante una tempesta un uomo naufraga in un’isola che presto scopre essere disabitata e dove padrona è la natura che provvede a proteggerlo e nutrirlo con quello che ha da offrire. Questo contemporaneo Robinson Crusoe costruisce una zattera per fuggire dall’isola verso l’ignoto, nella speranza di tornare alla civiltà, ma una volta lasciate lo sponde qualcosa di marino e spaventoso distrugge la sua zattera ed è costretto a tornare sull’isola e rimettersi all’opera. Terminata la seconda zattera parte fiducioso verso il largo, ma un nuovo attacco misterioso distrugge la sua zattera e furioso torna all’isola. Costruendo la terza zattera si prepara a combattere contro la misteriosa forza che intralcia i suoi progetti ed il sogno di tornare al suo mondo, alla sua civiltà, e questa volta vede chi è il suo temibile antagonista: una gigante e bellissima tartaruga rossa. La tartaruga anche stavolta riesce nel suo intento e l’uomo teme per la sua vita una volta in acqua, invece la tartaruga si limita a guardarlo e ad andare via, lasciando l’uomo alla sua rabbia, alla frustrazione che si traduce in un oscuro desiderio di vendetta.
Approfondire la storia a questo punto lo sconsiglio, quanto sconsiglio vedere il trailer non incluso volutamente in questa recensione, perché ci troviamo davanti a qualcosa di cui meno conosciamo e più possiamo goderne, anche per il semplice fatto che il lungometraggio dura 80 minuti ed è meglio goderselo senza troppi dettagli e precisazioni che lascerebbero ben poco spazio alla sorpresa.
Poesia per l’anima e gli occhi
Due puntini neri diventano gli occhi che scavano nel ricordo di certi fumetti che hanno fatto storia, guardando così il character design usato per il protagonista senza nome de La Tartaruga Rossa, qualcuno potrebbe lasciarsi trasportare dal mare della nostalgia ripensando a Les Aventures de Tintin del maestro belga Hergé. Lì dove i colori, le sfumature e i non detti sono catturati dalla particolarità degli occhi nell’animazione contemporanea, tale specchio dell’anima viene rotto da Michaël Dudok de Wit per legarsi al paesaggio, all’immenso oceano, agli alberi, alla sabbia, alla vegetazione, a tutti quei luoghi che esploreremo nella piccola isola che ci rendiamo conto essere molto più che uno scenario illustrato, è esso ad essere la vera anima della storia: il protagonista è naufrago, perso, eppure pian piano questo posto magico gli fa ritrovare se stesso.
Anche la tartaruga non sembra un animale scelto a caso: è un animale antico, preistorico, in quanto tale diventa uno strumento per riportare l’uomo alla sua natura primordiale (e non a caso l’animale viene dall’acqua), riscoprirla per trovare ciò di cui si ha davvero bisogno e saper godere di quel poco. Una morale così usata ed abusata sembra non poter concedere spazio all’originalità, eppure così non è. La semplicità acquista profondità, viene vista da prospettive diverse, silenziata da ogni suono umano (niente dialoghi, solo i suoni della natura e la splendida colonna sonora), reale e fantastico si uniscono attraverso quelle che sembrano tavole disegnate con i pastelli.
La verità non è molto lontana: il film è stato disegnato sia con matite tradizionali che con matita digitale; la versione in digitale però ha esaltato i colori ed è stata scelta per essere animata, mentre la computer grafica è intervenuta solo per la tartaruga, lasciando che tradizione e contemporaneità collaborassero.
L’importanza di non essere un film d’intrattenimento
Ricco di simboli, di sottotesti, di rimandi, di citazioni, capace di emozionare senza calcare su aspetti melodrammatici, come si può descrivere tanta semplicità e ricchezza se non in poesia?
Tuttavia è la letteratura ad insegnarci che la poesia, per quanto sublime, non è per un pubblico ampio. Si può vedere quest’opera come una semplice fiaba, certo, ma è molto più di ciò.
Quando La tartaruga rossa è arrivato in anteprima a la Festa del Cinema di Roma, insieme ad una critica entusiasta ho avuto modo di sentire commenti negativi; una piccola fetta di pubblico ha etichettato come “insensata” e “noiosa” una pellicola tanto profonda, per il semplice motivo che non è un film d’intrattenimento, ma è un lavoro complesso e ricercato nonostante la sua apparente semplicità. Banalizzarlo però è un grave errore perché ci troviamo davanti a una piccola opera d’arte che nasce per emozionare, far riflettere e conquistare. Il consiglio non può che essere di andare a vederlo, con la speranza che arrivino nelle nostre sale sempre più lavori simili.