Murphy e Falchuck ci riprovano. Nonostante i disastrosi risultati delle precedenti stagioni, American Horror Story: Apocalypse ha visto la luce contro ogni principio di buon senso. E l’esito potrebbe aver sorpreso molti di coloro che davano lo show antologico, agonizzante sin dal suo quarto capitolo, ormai completamente morto. Apocalypse, ovviamente lontano anni luce dalla perfezione di Asylum, si avvicina alla piena sufficienza di Coven, di cui è crossover insieme a un altro riuscito capitolo della serie, Murder House.
Da questo punto seguono spoiler, siete avvisati.
Murphy conferma il proprio gusto per l’inizio in medias res. Una crisi missilistica ha ridotto la terra in un agglomerato di scorie radioattive sterminando la quasi totalità della popolazione mondiale. I più ricchi hanno trovato riparo in bunker chiamati Avamposti, uno dei quali comandato dalla perfida Miss Venable, primo alter ego in ordine di apparizione di Sarah Paulson. Scelta di grande impatto in cui non stona neppure l’esasperata vena camp che fa virare il prologo più verso il demenziale che l’horror. Questo humor che colpisce gli influencer e social media attraverso la persona di Coco (Leslie Grossman) resta particolarmente concentrato fino a quando fa la sua comparsa colui che si presenta come il principale responsabile della fine del mondo, Michael Langdon.
Michael, un Anticristo senza manuale
Michael è il trait d’union con Murder House, e si deve alla sua presenza il ritorno sulla scena di Jessica Lange, divina nei panni di Constance Langdon nell’episodio 6 (bello) e nel finale di stagione. Ben interpretato da Cody Fern, da American Crime Story 2, Michael si presenta come un Anticristo insolitamente pieno di dubbi e incertezze, una tentazione troppo forte per un indagatore della psiche come Murphy, che spende molto tempo a tracciare la tormentata genesi del personaggio, forse più del necessario. Il figlio di Satana diventa lo strumento attraverso cui mettere in ridicolo la società: scienziati dai musi sporchi di droga come di zucchero, regine voodoo che vogliono fare televisione, satanisti che non trovano di meglio da chiedere che soldi e Ryan Reynolds (non che sia male, intendiamoci, ma le vecchie ambizioni di dominio del mondo o della conoscenza sono ormai un ricordo dei secoli passati). A tanto misero nulla si è ridotta la specie umana. Il messaggio non potrebbe arrivare più chiaramente, anche dalle asettiche stanze in cui i due cervelloni conciati da Umpa Lumpa, (Evan Peters e Dylan McDermott), progettano l’estinzione di massa dell’era digitale come si trattasse di un videogame.
Tremate, tremate le streghe sono tornate
Le ragazze di Coven tornano per rimediare al disastro, rinforzate dalla Nuova Suprema interpretata da Billie Lourd. Sullo sfondo di una battaglia dei sessi si trova la maggiore concentrazione di fan service, uno su tutti Stevie Nicks, tante resurrezioni e “ri-morti” da perdere il conto, e ritorni in puro stile Carramba che sorpresa! E’ evidente che il detto less is more non ha mai contato molto per Ryan Murphy: flashback e flashback di flashback si susseguono tanto intensamente da far sparire per ben sei delle dieci puntate quello che sembrava il principale filo narrativo, la guerra tra la Congrega e Michael. La preparazione delle Streghe allo scontro diventa il “succo della storia”, visto anche il breve minutaggio dedicato al combattimento vero e proprio. Senza commentare il del tutto superfluo ricordo della famiglia Romanov, (forse suggerito dal centenario dell’eccidio di Ekaterinburg), tutta la gestione della trama risulta dispersiva, anche se non tanto irritante quanto lo è stata in Cult, e tutto sommato gradevole.
Investito Satana se ne fa un altro
Lo stesso non si può dire per il gran finale, e non solo per il picco di trash in cui Emma Roberts mitraglia il figlio di Satana. Se l’idea trita e ritrita del viaggio del tempo è nobilitata dal sacrificio di Cordelia, per l’investimento con la macchina non ci sono scuse. Va bene la provocazione, va bene la logica efficace, ma il tenore della serie non è lo stesso di Deadpool 2, in cui il solito Ryan Reinolds si ritrova con Hitler neonato. Solo santa Jessica Lange riesce a conferire profondità alla spiazzante scena e il suo “Go to Hell” chiude degnamente una pagina discutibile dello show. L’ultima sequenza giustifica l’altrimenti inutile preambolo iniziale: i due giovani dal DNA perfetto, portati con la forza nel bunker mettono al mondo un secondo Anticristo. Il genere umano non ha scampo e forse non lo merita, come il cinema ci sta dicendo già da qualche tempo (ad esempio con le condivisibili riflessioni di Thanos in Avengers: Infinity War).
American Horror Story: Apocalypse, bilancio finale
Bravissimo a calarsi in qualunque registro, maestro nella costruzione di personaggi complessi e dal vissuto delicato, Ryan Murphy si dimostra meno abile a gestire il tutto d’insieme, a conferire unità alla varietà, a mantenersi coerente. L’horror, il demenziale, il cinema muto, la Fabbrica di Cioccolato dell’Apocalisse, ognuno di questi elementi è perfettamente realizzato in se stesso ma perde di senso nella globalità dello show, che risulta sovraccarico. Tuttavia non si può negare che Apocalypse rappresenti un netto miglioramento rispetto al recente passato della serie. Se questa svolta positiva debba essere presa come fonte di speranza o occasione di una degna e auspicabile chiusura, sarà il tempo a dirlo.