Il cinema da sempre non si pone come mezzo esclusivo di intrattenimento. Le sue potenzialità espressivo-riflessive sono andate ben oltre fin dalle sue origini, fin da quei primissimi intellettuali e filosofi che ne cominciarono a studiare le potenzialità concettuali. Da tutto ciò, quindi, ogni lungometraggio creato può scegliere se seguire una strada che s’interfaccia concettualmente con il pubblico o, in maniera più leggera, semplicemente lo intrattiene. Il fatto di parlare a un pubblico in maniera diretta è un altro di quei giganteschi meriti che il cinema ha e che lo distingue da qualsivoglia altro mezzo espressivo. Il modo in cui vengono costruite le immagini e tutto ciò che veicolano ha un peso, conscio e inconscio, sull’occhio che ne assorbe gli elementi. Così nulla deve mai essere dato per scontato quando si parla di film o di prodotti audiovisivi. Ogni artista, poi, sceglie un modo del tutto personale per tentare di dar voce a quello che ha dentro, cercando di svincolarsi anche dal proprio tempo, dalla morale comune che, volenti o nolenti, condiziona ogni cosa. Parlare di Animal House significa parlare di un progetto che fin dal principio si è slacciato da tutti i moralismi vigenti nel suo tempo, tuffandosi però pienamente nelle dinamiche di un’America precisa per poi demolirne ogni certezza, ogni idea o visione. La provocazione, anche goliardica, alla base di una riflessione che vuole smontare qualcosa, distruggendone l’illusione, attraverso alcune idee che hanno fatto la storia stessa del cinema.
Avere qualcosa da raccontare non significa necessariamente costruire un percorso lineare con un inizio e una fine. Con questo film sono le immagini a parlare, sono le gag, sono i suoi stessi personaggi e il modo in cui vengono rappresentati e costruiti, sono le dinamiche sociali a seguirli passo passo in ogni loro momento, è il contesto stesso a urlare qualcosa che viene continuamente ribaltato e affrontato in tutto e per tutto. Se si dovesse tentare in qualche modo di spiegare Animal House lo si dovrebbe fare partendo da due aggettivi nello specifico: dissacrante e anarchico. L’anarchia la fa da padrona in questo film, lo permea dall’inizio alla fine assorbendone e disegnandone ogni singola inquadratura, in un viaggio che alterna momenti folli a istanti cartooneschi. Questa stessa identità non si limita, però, soltanto alle vicende rappresentate ma alla struttura stessa della pellicola, la quale segue una strada tutta sua distanziandosi da ogni rappresentazione filmica classica. Non una vera e propria destrutturazione in stile Nouvelle Vague, ma qualcosa che nella sua apparente semplicità fa del caos un elemento aggiuntivo. Il disordine generale dei suoi protagonisti, infatti, si proietta nell’immediato nel modo in cui le loro vicende vengono costruite, con un piccolo accenno di trama verso la fine, che ritrova la sua dimensione inafferrabile subito con il finale. Caos e comicità conducono a una sregolatezza leggera ma mirata verso una visione sociale precisa di quest’America che tenta in tutti i modi di etichettare o arginare qualcosa di appartenente delle sue stesse radici. Ecco che i perdenti diventano protagonisti, gli incompresi, quelli che verrebbero facilmente identificati come “reietti” ora finalmente in auge, pronti a urlare qualcosa verso un pubblico immortale, verso le folle di curiosi che videro il film all’epoca e continuano a vederlo ancora cogliendone lo spirito e soprattutto il messaggio. Il fatto che l’intera pellicola si concentri sui suoi personaggi ponendoli in contrasto con il contesto in cui si muovono e vivono resta uno dei tratti più preminenti dell’intera storia, nonché caratteristica distintiva nel coglierne il reale messaggio nel suo incedere di gag in gag.
Le origini dei Delta
Il 1978 è l’anno in cui Animal House (Nome originale: National Lampoon’s Animal House) vede la luce, prodotto dagli Universal Studios. La regia nelle mani di John Landis (Un Lupo Mannaro Americano a Londra, Una Poltrona per Due, Beverly Hills Cop 3, The Blues Brothers) è delineata da da tre sceneggiatori: Douglas Kenney, Harold Ramis e Chris Miller. La trama del film è estremamente semplice se non basilare. Siamo, non a caso, nel 1962 e nel Faber College due confraternite, nello specifico – “Delta Tau Chi” (ΔΤΧ) e “Omega Theta Phi” (ΩΘΦ) – rubano la scena a qualsivoglia altro elemento presente all’interno del campus. I due gruppi non potrebbero essere più diversi fra loro se non proprio diametralmente opposti. I Delta sono la rappresentazione stessa dell’anarchia più sgangherata che si possa immaginare, mentre gli Omega sono la perfetta rappresentazione dell’America più tipica di quel periodo: moralista, bigotta, borghese, repressa sessualmente e di destra fino al midollo. Gli eventi si aprono con due nuove matricole Larry e Kent, i quali devono decidere in quale confraternita entrare o semplicemente essere accettati. Questo espediente narrativo ci dà fin dal principio la possibilità di spulciare da entrambe le parti, in entrambe le fila di questi due gruppi. Se con gli Omega i due ragazzi trovano un ambiente estremamente snob e selettivo, che sfocia anche nel razzismo più becero (pronto a ricalcare tutte le ritualità tipiche anche delle logge massoniche in generale), con i Delta non è cosi. Il loro rifugio, un edificio fatiscente e senza alcuna cura estetica di sorta è soltanto un anticipo dell’ambiente festaiolo e spensierato all’interno. La sregolatezza in contrapposizione alla rigidità morale e limitante (pronta a fare il verso a un’America che parrebbe essere proprio quella di Nixon, soprattuto con il personaggio del preside), la stessa rigidità che nella società mira ad eliminare l’individuo a favore della massa.
Partendo da tutto ciò Animal House ci trascina in una vera e propria guerra fra questi due gruppi, in cui il sistema e i suoi esponenti sono dalla parte degli Omega, seguendo una serie di tentativi mirati a eliminare del tutto il gruppo dei Delta. Battaglie di cibo, momenti piccanti e feste varie portano avanti una narrazione che ancora oggi risulta leggera e al tempo stesso iconica nel suo incedere.
Sono stati i singoli personaggi e momenti a rendere la pellicola il cult immortale che è oggi, al punto da essere inserita, nel 2000, al 36esimo posto fra le migliori cento commedie americane di tutti i tempi dall’American Film Istitute. Fra tutti spicca il personaggio di Bluto (John Blutarsky) interpretato dal compianto John Belushi. I suoi momenti nel film restano i più memorabili e reiterati nella storia di tutti i medium. Belushi ha dato vita e forma a un personaggio immortale, e lo ha fatto attraverso il suo naturale talento comico, costruendo momenti che in seguito si sono rivelati principalmente suoi. Landis stesso, in seguito, ha rivelato che alcune delle scene più memorabili del suo personaggio furono esclusivamente farina del suo sacco, costruite quindi sull’improvvisazione di Belushi stesso (due esempi di ciò li troviamo nella scena della mensa in cui si riempie il vassoio per poi ingozzarsi, e in quella in cui sputa quello che ha in bocca sugli altri attori, colti in maniera del tutto inaspettata). Questo film, in effetti, fu un vero e proprio trampolino di lancio per l’attore, il quale aveva già gettato le basi della propria carriera, consacrandosi ora al grande pubblico. Il successo e la partecipazione ad Animal House ispirarono anche l’amicizia con il regista John Landis, con il quale realizzò in seguito il celeberrimo The Blues Brothers nel 1980.
Una menzione onorevole va fatta nei confronti di Douglas Kenney, quando si parla di Animal House. Come detto sopra ha contribuito alla scrittura del film. Stiamo parlando di uno dei fondatori del National Lampoon, insieme ad Henry Beard, una delle riviste umoristiche e satiriche più influenti degli anni ’70 (nonché autore originario di Palle da Golf) . Questa rivista è stata un vero e proprio “calderone” per moltissime delle menti più irriverenti dell’epoca, avendo contribuito al lancio di moltissimi leggendari comici come il succitato Belushi o Chevy Chase. La rivista ha anche ampliato la propria voce attraverso uno show radiofonico e alcuni film. Per approfondire un minimo il tutto si consiglia la visione di A Futile and Stupid Gesture un film/documentario in cui viene narrata la storia di questo scrittore e autore.
Quindi?
Perché guardare Animal House nel 2021? Semplice, perché si tratta di un film immortale e ancora attuale, pur rapportandosi a una generazione di pubblico estremamente diversa da quella per cui fu “pensato”. Lo stacco temporale e anacronistico di alcune scene è inevitabile, come lo è anche la comicità di alcuni sviluppi e scelte legati alle varie gag. Contestualizzare il film è dunque corretto, anche se nel suo insieme tematico la pellicola trascende tranquillamente il suo periodo storico di appartenenza, pur essendone impregnata, costruendo un vero e proprio esempio di controcultura dal retrogusto amaro atto a sovvertire qualsivoglia perbenismo di sorta. L’elemento provocatorio, quindi, resta intatto e ancora oggi tagliente per certi versi, giocando continuamente con la morale snob e con una visione della società asservita all’omologazione semplicistica dell’identità umana. Ecco perché amiamo tanto la ribellione anarchica dei suoi protagonisti, i quali ancora oggi ispirano qualche risata e sopratutto riflessione verso un certo tipo di sistema settario che non ci ha mai veramente abbandonati del tutto, e forse non lo farà mai. Non ci resta che organizzare un Toga Party sperando di lavare via ogni cosa con del buon vecchio Jack Daniels.