Barriere (titolo originale Fences) nasce come opera teatrale nel 1983 scritta dal Premio Pulitzer August Wilson (27 Aprile 1945 – 2 Ottobre 2005), per il Ciclo di Pittsburgh, di cui è la sesta componente. Ognuna delle opere del ciclo di Wilson era finalizzata ad esplorare il mondo afroamericano di Pittsburgh nelle sue dinamiche comiche, drammatiche e relazionali, riportando gli aspetti culturali e sociali in decenni diversi. Con Barriere veniamo portati nella Pittsburgh degli anni Cinquanta, dove conosciamo Troy Maxson (Denzel Washington), addetto alla nettezza urbana, che vive per mantenere la sua famiglia. Non aspettatevi però un eroe da melodramma, dietro battute di spirito e distese risate c’è un padre padrone che non vuole piacere.
Il cinema teatrale di Denzel Washington
Denzel Washington porta sul grande schermo la pièce teatrale nella quale aveva lavorato nel 2011 con Viola Davis, imponendoci – capirete dopo la scelta di questo termine – la storia della famiglia Maxson.
Il film si apre mostrandoci il cinquantatreenne Troy a lavoro, che raccoglie rifiuti, con il suo amico di sempre Jim Bono (Stephen McKinley Henderson). È venerdì, giorno di paga, quindi Troy è particolarmente allegro, in vena di scherzare e ricordare i bei tempi quando era un giocatore professionista di baseball (nella Negro League, nata del Ottocento, rimasta attiva fino al 1966), oltre che raccontare le sue surreali avventure, tra cui un fantomatico incontro con la Morte in persona, avvenuto quando era malato di polmonite. Troy sembra così un personaggio estremamente positivo, divertente, in grado di far sempre ridere la sua amatissima moglie Rose (Viola Davis), ma quando quel pomeriggio arriva a far visita il suo primogenito Lyons (Russell Hornsby), avuto da una precedente relazione, iniziamo a conoscere meglio Troy. Il figlio è lì per un prestito di 10,00 $, ma il padre è ostinato a non fargli alcun favore, perché vorrebbe che il figlio trovasse un “vero lavoro”, anziché fare il musicista; solo l’intervento di Rose permette il prestito e lascia morire la questione. Una volta che Lyons è andato via, Rose racconta al marito che il loro figlio Cory (Jovan Adepo) è stato scelto da un team di football universitario che è pronto a dargli una borsa di studio, il suo scout ha solo bisogno di parlare con il padre, ma Troy è contrario: è convinto che per gli afroamericani non ci sia posto nel mondo dello sport, lui ha avuto un’esperienza deludente con il baseball e vuole evitare delusioni al figlio.
Se questi primi approcci possono sembrare duri, ma in fondo comprensibili, è nel momento in cui padre-figlio lavorano insieme per costruire la recinzione intorno casa che il confronto tra Troy e Cory, rivela un padre ottuso e autoritario: Cory chiede semplicemente a suo padre se lui gli è mai piaciuto – non sentendosi amato – e Troy, alterato, gli rivela che il suo compito non è farsi piacere il figlio, ma lavorare sodo per mantenere la sua famiglia, perché quello è il compito di un padre, quanto quello di fare le regole. Più il minutaggio va avanti e più possiamo renderci conto di quanto quelle parole siano vere e quanto sia stato fondamentale che Denzel Washington abbia fatto coincidere il suo ruolo di protagonista con quello di regista, un ruolo che diventa unico, in quanto Troy è il protagonista e il regista della sua famiglia e delle loro vite, un regista autoritario che – ci piaccia o no – s’impone costantemente sulla scena, fatta di poche e statiche scenografie, a ricordarci l’origine teatrale della storia, presentandoci quel tipo di messa in scena con le sue virtù e i suoi limiti. Da una parte c’è la recitazione prettamente teatrale con un’espressività accentuata, esaltata, spinta, di sguardi trasparenti e significativi, di parole segnate dalla vita del ghetto e con un linguaggio che si esprime secondo le regole del baseball, che diventa la metafora e la chiave d’interpretazione dei rigidi schemi mentali del protagonista. Dall’altro lato ci sono i limiti del teatro, come la staticità della scena, nonostante l’obiettivo si muova con il trascinante dinamismo dei personaggi la scenografia è quasi prettamente casa Maxson, esterno ed interni, una scelta che trasmette la chiusura di Troy verso il mondo (che è dei bianchi) e l’impossibilità di migliorare. Altro limite, forse il più significativo, è l’estrema lunghezza delle scene che – in particolar modo all’inizio – sono ricche di aneddoti, conversazioni che sembrano vuote, ripetitive, impregnate di pregiudizi e dove s’impone l’ego di Troy. Sono lunghe, estenuanti, presuntuose e sembrano non voler mai spingere oltre la trama che – in verità – neanche esiste, considerando che Troy si identifica con il plot stesso.
Se Barriere potesse identificarsi con un cibo potrebbe essere una pappa molto speziata e di difficile digeribilità, ma nella quale non si può che riconoscere un gusto autentico e di carattere, che sono probabilmente le caratteristiche che hanno portato il film in nomination agli Academy Awards e, più importante, la vittoria della coppia Washington-Davis agli Screen Actors Guild Awards 2017.
Un personaggio come Troy ha un’energia tale da poter oscurare l’intero cast, ma non può farlo con Rose, interpretata da una straordinaria ed emozionante Viola Davis meritatamente in lizza tra le migliori attrici non protagoniste per gli Academy Awards 2017 (per inciso: qui si fa il tifo per lei).
Rose è la moglie casalinga, si occupa della casa e della parte economica; ruolo potenzialmente banale, soprattutto in uno scenario dove si cercano (giustamente) personaggi che possano diventare icone del femminismo, ma Rose è probabilmente il personaggio che conferisce valore all’opera, perché è la poetica, l’espressione, la morale e il simbolo, insieme al baseball, le due uniche due cose che Troy abbia davvero amato.
L’ego di Troy è sgradevole, eppure quando incontra lo sguardo di Rose, i suoi occhi ogni volta si illuminano; i sorrisi, la complicità, creano tra Denzel e Viola una chimica che non sempre si riesce a vedere in un film ed è probabilmente per questo che qualcosa di Troy riusciamo a perdonarlo, riusciamo a giustificarlo: Rose conosce il lato migliore di Troy e lo tira fuori, placando il peggiore. Rose mitiga i rapporti aspri tra padre e figli, accoglie chi non è suo figlio come se lo fosse, è complice di Troy, ma non omertosa; lei stessa finisce per essere vittima dell’ego di Troy, ma ha una forza straordinaria che si traduce in morale, priva di odio, priva di risentimenti o negatività. Rose non è la damsel in distress, Rose è l’eroina.
Ed è sempre Rose a chiedere che Troy costruisca una recinzione (la recinzione che dà il nome all’opera, Fences) intorno casa, un’attività lunga e lenta, che l’amico Jim interpreta come un bisogno di Rose di tenere stretti a lei i suoi cari, di tenere vicino a lei Troy, un simbolo perché la sua famiglia sia protetta. Troy rimane colpito da questa interpretazione, tuttavia sarà solo quando un evento drammatico lo colpirà direttamente che tirerà fuori da lui la determinazione di finire il recinto che diventa una vera e propria barriera contro il mondo, contro l’Oscura Mietitrice, contro il razzismo che vede ovunque e lo tormenta dal suo passato. Le sue barriere mentali diverranno così fisiche.
La distribuzione della Universal Pictures è stata criticata per aver adattato il titolo in Barriere, vertendo sulla chiusura ed entrando in volutamente in contrasto con il titolo originale, confortevole e positivo, aprendo così all’ambiguità che caratterizza Troy. In fondo, si può dire che Troy ha lo stesso desiderio di Rose in lui, quello di proteggere i suoi cari, solo che la recinzione in un cui confina la sua famiglia finisce per diventare luogo odioso dove si disperde l’amore familiare, a causa di tutte le sue mancanze, tra le quali spicca l’assenza di coraggio (che tanto lo imbarazza e che i figli, a sua differenza, hanno) che lo ha portato a vivere quella vita che alla fine lo opprime e che lo porta – di riflesso – ad opprimere la sua stessa famiglia.
Troy Maxson è una brava o una pessima persona? Non c’è alcuna giustificazione a darci una risposta, Troy è umano e Barriere è la storia di questo umano che – come dice lui stesso – ha cercato di fare del suo meglio, mettendo da parte talento ed ambizione che – nel tempo della sua giovinezza – non l’avrebbero portato lontano. Estrapolando una metafora con cui Troy parla di sè, egli è il talentuoso battitore che riesce a fare gli homerun, ma che opta per un bunt per far avanzare la squadra, perciò possiamo davvero giudicarlo?
Barriere non è un film per tutti (è un lavoro impegnato, estenuante, ricco di metafore sul baseball che se non sono comprese rendono difficile capire il personaggio), ma è proprio quando un’opera mostra una certa complessità che se ne comprende il valore (si è usata e rispettata la sceneggiatura originale di August Wilson) e Washington l’ha maneggiata con grande rispetto e talento che merita di essere premiato e, se non sentivamo prima il bisogno di un suo ritorno alla regia, ho la sensazione che da questo film inizieremo ad aspettare con una certa impazienza il prossimo lavoro.