A distanza di 4 anni dai tragici eventi della maratona di Boston del 2013 – che costarono la vita a 3 persone e il ferimento di altre 264 – il regista Peter Berg prende in mano una vicenda delicata, accarezza una ferita ancora aperta nel cuore dell’America e ne confeziona un prodotto cinematografico pronto a suonare le corde dell’animo del pubblico a stelle e strisce.
La trama è cronaca, fedelissima ai fatti realmente accaduti, con incastonati nella dinamica cinematografica inserti video e materiale d’archivio che conferiscono alla pellicola un alone quasi di natura documentaristica nella narrazione degli eventi. Džochar e Tamerlan Carnaev sono due giovani fratelli jihadisti ceceni cresciuti negli USA. Il loro piano è terribile quanto di facile esecuzione: con due ordigni fatti in casa grazie a tutorial trovati nel deep web, i due seminano il terrore nella celebre maratona di Boston. Da qui parte una lunghissima e tesissima caccia all’uomo che per 105 ore coinvolgerà e paralizzerà l’intera metropoli, terminando con l’uccisione del fratello maggiore e l’arresto di Džochar (tuttora detenuto, in attesa della pena capitale).
Un film con due anime
Nonostante la trattazione a tratti giornalistica dell’accaduto (o forse proprio grazie a questa), Boston – Caccia all’uomo è un film che riesce ad evocare un orgoglio tutto statunitense, ma al contempo anche ad emozionare anche il pubblico d’oltreoceano.
Da una parte l’elogio della reazione della città, che diviene metafora dello spirito di una intera nazione raccolta nella solidarietà e nella collaborazione, compattata dalla scoperta di aver coltivato in grembo al proprio seno un nemico. L’elogio non è solamente limitato alla reazione cittadina, ma anche al capillare lavoro delle forze dell’ordine, in quella che i produttori del film definiscono come una delle più sofisticate e meglio coordinate caccia all’uomo nella storia. Un’anima fatta di eroismo civico, di resilienza, di senso dello Stato, dunque.
Oltre a questo, però, c’è dell’altro.
Boston – caccia all’uomo ha infatti il pregio di calarci nell’intimità di protagonisti e vittime dell’attentato, regalandoci uno scorcio sulla loro quotidianità, sulle diverse – semplici e ordinarie – strade che hanno condotto alla loro fine.
Ed è questa umanità a conferire al lavoro il maggior valore: riuscire a colmare il fossato di anempatia che ci separa dalle vittime di questa tragedia e dalle vittime di ogni tragedia. Il dono dell’intimità riesce a squarciare lo schermo; la sofferenza smette improvvisamente di essere il ruolino dei caduti annunciato nei titoli di un telegiornale.
La sofferenza è resa umana dalla settima arte.