Netflix ha aggiornato il suo catalogo con una nuova serie, Chiamatemi Anna, ordinata dalla CBS, che porta la firma della pluripremiata sceneggiatrice Moira Walley-Beckett, (esponente della squadra di showrunners di Breaking Bad), fedele trasposizione del romanzo Anne of Green Gables, pubblicato nel 1908 dalla scrittrice canadese L.M. Montgomery.
La storia è quella nota, soprattutto grazie al famoso anime giapponese Anna dai capelli rossi: Anna Shirley è un’orfana tutta gomiti e ginocchia che non sa stare zitta, emaciata e munita della celebre chioma infuocata in un periodo in cui essere eccessivamente magri e rossi di capelli fa tutt’altro che moda. Le sfortune dell’undicenne della Nuova Scozia non si esauriscono nel peculiare aspetto fisico: persi i genitori appena neonata, la giovane ha passato la vita divisa tra l’orfanotrofio e opportuniste famiglie affidatarie, finché per un malinteso capita nella fattoria di Green Gables, dei fratelli Matthew e Marilla Cuthbert, non più giovani e in cerca di un bracciante che aiuti nei campi, ai quali l’arrivo della ragazzina cambierà per sempre la vita.
Pur in formato seriale, Chiamatemi Anna può ben ascriversi alla categoria di film classici tratti dalle corrispondenti opere letterarie di formazione come Jane Eyre, Piccole Donne e Oliver Twist, e oltre alla trama strappalacrime presenta tutte le caratteristiche proprie degli sceneggiati riconducibili al genere: una fotografia attenta al meraviglioso contesto paesaggistico, una tradizionale e melodrammatica colonna sonora che ben sottolinea gli stati d’animo della protagonista, un buon numero di riferimenti poetici e romanzeschi e soprattutto una serie di peripezie che non conosce fine.
Negli otto episodi in cui si snodano le vicissitudini di Anna molti ritroveranno impolverati ricordi di infanzia ed echi di trame conosciute, ma la sceneggiatura non si limita riproporre luoghi narrativi entrati nell’immaginario comune per lo più attraverso la televisione degli anni ottanta, e pone sapientemente l’accento sull’aspetto interiore dell’orfana.
La ragazzina infatti non ci è presentata solo come la creaturina romantica e fantasiosa, pura di cuore e goffamente teatrale, immagine giustamente tramandata dalla sua antesignana nipponica, e risulta chiaro come le suggestioni cavalleresche, i paroloni altisonanti delle prose più celebri della tradizione anglosassone non siano altro che una difesa messa in atto dalla mente traumatizzata dagli sfruttamenti subiti, una proiezione finalizzata alla ricerca di magia in una vita che spaventa. Una forma di forza interiore e allo stesso tempo un pericoloso meccanismo di evasione che rischia di portare Anna lontano dalla realtà, come accade dopo la delusione provocatale dalla grettezza dell’ambiente scolastico, e di alienarla in un mondo immaginario che le impedisce di affrontare e vincere i problemi e in grado di metterla fisicamente in pericolo.
Questa dualità di Anna è ben espressa dalla scrittura, dalla freddezza dei colori glaciali e cupi che lambiscono i tristi flashback del suo passato, in netto contrasto con il sole e il candore dei fiori di ciliegio del presente, e anche dalla notevole interpretazione di Amybeth McNulty, la giovane attrice che ha sbaragliato una concorrenza di milleottocento candidate aggiudicandosi meritatamente una parte che sembra scritta per lei (e della quale chi scrive consiglia di godere la performance in lingua originale).
Anche il resto del cast è stato evidentemente scelto con cura, a partire dai fratelli Cuthbert, Matthew (R. H. Thomson) e Marilla (la veterana di piccolo e grande schermo Geraldine James), che insieme a vicini e compagni di scuola compongono un mosaico molto rappresentativo dell’ipocrita e ingiusta comunità in cui la nuova arrivata deve integrarsi. Dall’equivoco maestro di scuola, al parroco all’antica, ai benpensanti che la dileggiano perché orfana, fino al gruppo di provinciali con velleità femministe che avvicina Marilla. Un quadro impietoso in cui poche figure, oltre ai Cuthbert, si distinguono per la positività, come la brutalmente sincera ma onesta Rachel (Corinne Koslo), la fedele Diana (Dalila Bela), i gentili Gilbert e Jerry (Lucas Jade Zumann e Aymeric Jett Montaz) e soprattutto la coraggiosa Josephine Barry, una donna decisa, istruita e indipendente che Anna prende a modello.
E’ così che una storia vecchia di cento anni finisce per avere, purtroppo per la società che non sembra essersi mossa poi molto da quella che era negli ultimi scorci del diciannovesimo secolo, risvolti attuali, quali lo sfruttamento dei bambini, i pregiudizi nei confronti di chi meriterebbe comprensione, il ruolo delle donne.
Nel suo complesso la serie risulta godibile già dai titoli di testa, ricchi di motivi bucolici e naturalistici, accompagnati dal bello e attinente pezzo Ahead By A Century dei Tragically Hip. La storia e i personaggi coinvolgono strappando sorrisi di divertimento e soprattutto di tenerezza, muovendo a compassione e rabbia per le ingiustizie, e anche se a tratti le reazioni fortemente emotive della protagonista potrebbero infastidire i telespettatori meno pazienti, Chiamatemi Anna centra pienamente i propri obiettivi.
Il finale “socchiuso” e il fatto che la stagione non ha esaurito l’arco narrativo del romanzo lasciano inoltre la strada aperta ad un nuovo capitolo.