Nella spettacolare cornice di Villa Borghese, scortata dal sole sfrontato delle nove del mattino, mi preparo ad assistere al primo lungometraggio di Fabio Fulco. Attore napoletano con alle spalle una lunga e fruttuosa carriera cinematografica e televisiva che ne smentisce impietosa l’aspetto giovanile, Fulco esordisce alla regia con una commedia corale all’italiana dal titolo Il crimine non va in pensione. Con l’ambizione di affrontare importanti temi sociali, il regista scippa soggetto e sceneggiatura a Fabrizio Quadroli e costella il film di interpreti altrettanto importanti.
Sono le dieci alla Casa del cinema. Le luci si spengono. Lo schermo si anima.
La mite atmosfera del centro anziani “La Serenissima” viene sconvolta dal ricovero in ospedale di Edda, un’ospite che accusa un malore in seguito alla perdita dei propri risparmi per delle scommesse illegali.
Gli amici decidono “quindi” di aiutare la povera Edda, la cui figlia si trova in gravose difficoltà economiche, organizzando una rapina al Bingo Avana. Tra ingenue strategie, numerosi piano B e imprese rocambolesche, i nostri eroi proveranno ad aiutare l’amica nel tentativo di smentire l’ambiziosa tesi per la quale ogni avventura sia un privilegio adolescenziale. E ci riescono.
Ci riesce Franco Nero, nell’ineccepibile interpretazione dell’autoironico deus ex machina. Ci riesce magistralmente D’Angelo. Conferma Mattioli, dalla straordinaria romanità. Riesce a convincermi pure una sobria Stefania Sandrelli, nella coerenza del ruolo.
Ma nessuno, nemmeno il regista e l’attore Fabio Fulco, che interpreta degnamente il suo personaggio e dirige con uno sguardo impeccabilmente classico, riesce a tutelare i timpani e la mente dalla catastrofe dei dialoghi. Perché i personaggi parlano e dicono tutto quello che non si dovrebbe. Dicono quello che viene visto con l’irrefrenabile istinto da crocerossina tipico della didascalia. Ribadiscono l’ovvio, il già detto e ampiamente compreso. Tessono dialoghi con fili di battute generiche e pressapochiste depauperanti la storia da qualsivoglia introspezione. Non stanno mai zitti.
Ed è un peccato perché si sono fatte le undici e il sole s’è fatto assassino. Ma io non lo so.
Attendo che l’intreccio narrativo segua il suo corso, verso l’ineluttabile finale del pretestuoso pretesto insito nel soggetto. Vedo interpreti straordinari affannarsi con dialoghi qualunquisti, asfissiati da una fotografia televisiva. Seguo con sincera curiosità le scene propedeutiche al finale, che s’erge fiero tra surrealismo grottesco e didascalia. E ancora più fiero e pacchiano, il font dei titoli di coda finalmente giunti in mio soccorso. Esco dal buio ovattato della sala, con l’improbabile agilità di un risveglio.
Tutto tace, finalmente.