L’adattamento a film hollywoodiano del manga cult Death Note è sembrata per anni una leggenda metropolitana che ha assunto connotazione apocalittica una volta annunciato realmente nelle sue differenze: L’ambientazione a New York, il teen idol Nat Wolff (Colpa delle stelle, Città di Carta) nel ruolo di Light Yagami (pardon, Light Turner), l’attore e rapper afroamericano Lakeith Stanfield (Get Out e War Machine) nel ruolo del pallido detective Elle, una Misa (Mia) cheerleader e la produzione firmata Netflix.
Da subito la trasposizione dell’opera ideata da Tsugumi Ōba e disegnata da Takeshi Obata era chiaro avesse delle profonde differenze dovute all’adattamento nella realtà statunitense, ma non è il setting occidentale o il colore della pelle di un personaggio che può determinare la qualità di un prodotto, no?
Death Note – Trailer Ufficiale
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Pubblicato da MovieSource.it su Mercoledì 22 marzo 2017
Opera originale e adattamento a confronto.
La storia originale di Death Note affonda le sue radici nel folklore nipponico con l’esistenza degli shinigami (Dei della morte): uno di loro, Ryuk, lascia cadere il suo quaderno della morte sulla Terra e a ritrovarlo è un giovane retto, geniale, con un profondo senso di giustizia, Light Yagami. Light trova nel quaderno una serie di regole che lo avvertono del suo potenziale mortale: se il nome di una persona (di cui si conosce il volto) viene scritto all’interno del quaderno, essa morirà entro quaranta secondi di arresto cardiaco. Light sperimenta la veridicità di quello che è scritto nel quaderno scrivendo il nome di un condannato a morte e poi di alcuni delinquenti, testando che tutto è reale e incontrando il terrificante shinigami Ryuk, il quale decide di essere vicino a Light come spettatore dell’idea che nasce in lui: ripulire il mondo dal male. Light usando di volta in volta il quaderno crede di poter diventare un dio, Kira, il Dio di cui tutti hanno bisogno e presto, ad affiancarlo in questo ambizioso piano, c’è Misa Amane una idol che possiede un altro quaderno della morte, donatole dalla shinigami Rem. Misa adora Kira poiché ha vendicato la morte dei suoi genitori esaudendo le sue preghiere e per tanto è disposta a fare qualunque cosa per lui, al quale dona il suo cuore ed è pronta ad essere la sua arma.
Il più grande detective del mondo, chiamato Elle, riesce a capire che dietro le misteriose morti ad opera del presunto dio Kira, c’è un serial killer e sfida Kira dicendo che lo arresterà e le sue non sono promesse vane: ha infatti identificato dopo mesi di lavoro che la serie di omicidi è iniziata proprio a Tokyo e Kira ha fatto accesso ai database della polizia per uccidere e lì si stabilisce iniziando a lavorare a contatto con il padre di Light, un rispettabile agente di polizia che decide di schierarsi con Elle nella cattura di Kira.
Il film di Adam Wingard (The guest e Blair witch) è ripulito delle radici folkloristiche nipponiche che reggevano la storia originale, Ryuk (a cui Willem Defoe ha prestato la voce) è presente, ma è visto come un demone e in quanto non viene approfondita la sua natura di Dio della morte, pur essendo portata in causa. Cambiando il setting, New York, cambia l’ambiente e le influenze in cui è nato il nostro protagonista, Light Turner, un adolescente non troppo onesto che vorrebbe fosse fatta giustizia per la morte di sua madre e che nella scuola non ci siano bulli. Light trova per caso il Death Note e non vorrebbe realmente testarlo, ma Ryuk lo spinge (per non dire costringe) ad usarlo e – terrorizzato dalla creatura più che curioso – scrive il nome del principale bullo della scuola, specificando che lo vorrebbe morto per decapitazione e… nell’arco di quaranta minuti il bullo è decapitato.
A casa Turner facciamo la conoscenza di suo padre, James (Shea Whigham), poliziotto di poco conto che ancora non è riuscito a mettere dietro le sbarre l’assassino di sua moglie e per questo non ha l’ammirazione del figlio, il quale decide di farsi giustizia da solo utilizzando il Death Note. Il giorno dopo Light incontra di nuovo Mia (Margaret Qualley), una bella cheerleader che ha protetto dal bullo che ha ucciso, e a lei decide di rivelare il potere Death Note per far colpo. L’intraprendente Mia spinge Light a diventare un paladino alternativo della giustizia, alimentando in lui l’idea di diventare qualcun altro, un Dio che porterà a far scendere in campo Elle, il quale sembra esser il personaggio più fedele all’opera originale, ma che è anche il principale motore che trasforma il thriller psicologico in un detective story dal carattere hard boiled.
Niente partita a scacchi.
Nel voler sottolineare il carattere hard boiled di questa detective story, non voglio illudere sul fatto che Elle sia un Sam Spade (ruolo che calza più a James Turner) o un Marlowe, ma dimenticate lo studiato thriller degno della penna di un Conan Doyle o una Agatha Christie, il segreto del successo globale di Death Note, determinato dall’essere un thriller che si rifaceva a una partita a scacchi, non è stato colto dal gruppo di sceneggiatori costituito dai fratelli Charles e Vlas Parlapanides, insieme a Jeremy Slater (creatore della serie The Exorcist). Ogni gesto ed ogni parola calcolati, l’adrenalina nella corsa dei pensieri e la sfida mentale tra Light e Elle, tutto è trasformato in azioni sconsiderate, adrenalina dettata dalle conseguenze dei gesti sconsiderati (quanto dalle corse) e la sfida mentale tra Light e Elle, dopo un primo accenno diventa un momento tra due adolescenti che si urlano contro ridicolizzando il personaggio di Elle, quanto quello di Light. Elle possiede la calma riflessiva di Hulk e Light fatica a non avere crisi isteriche dettate da probabili squilibri ormonali, fortunatamente compensa Mia con i suoi nervi saldi che diventa un personaggio fondamentale per l’azione e l’equilibrio di Light, ma la coppia non è così salvifica come si potrebbe sperare. Light e Mia stemperano i toni drammatici del thriller trasformando la storia in un teen drama che ricorda le atmosfere dei libri di John Green; forse la presenza di Nat Wolff ha ispirato una vena romantica, fatto sta che adolescenti che si cimentano con la scrittura amatoriale scrivendo fanfiction dalle atmosfere rosee avrebbero fatto di meglio. Ahimé, qualsiasi fanfiction sarebbe stata più credibile della sceneggiatura di questo film che fallisce non solo perché non coglie il focus dell’opera, ma soprattutto perché dall’inizio ci sono falle logiche che dovrebbero essere vietate in qualsiasi thriller: Light è sorvegliato in ogni passo, Elle spende forze e fondi per le indagini, ma non fa la cosa più banale (presente nel manga): inserire delle videocamere in casa Turner e sorvegliare le linee telefoniche. Certo, il film così non avrebbe avuto modo di svilupparsi visto che Light e Mia sono del tutto sconsiderati nella loro missione, tanto che urlano nelle scale della scuola delle questioni del death note, oltre a parlare tranquillamente al telefono delle persone da uccidere o quando si coccolano nella stanza di Light.
Adam Wingard ha difeso il suo adattamento a spada tratta, parlando di rispetto e cura al dettaglio, ma se il dettaglio sta nella presenza delle mele e in qualche battuta riciclata dal manga, probabilmente Wingard ha guardato i dettagli sbagliati che lo hanno portato a dirigere una storia folle con tante falle e in cui non è intervenuto, adagiandosi su una serie di azioni e parole che accadevano in modo confuso. Scimmiottare i fans affezionati con una battuta passio-aggressiva sulla pronuncia del nome Ryuk, non risolve e assolve le scelte di un adattamento.
Analisi di tutto quello che non ha funzionato.
Non mi piacciono le critiche premature alla visione di un’opera e per questo ho sfidato l’apparenza, Wingard ha forse voluto essere provocatorio con alcune scelte che potevano funzionare, ma una volta visto il film, il suo lavoro è difficile dire se sia stato un auto-sabotaggio o una presa in giro. Di certo c’è una forte pecca di presunzione: appropriandosi dell’opera, il regista ha voluto modificare quasi tutto e non solo per adattarla al contesto statunitense, ma credendo di poter intervenire sugli elementi chiave quali il Death Note stesso per fare qualcosa di unico e diverso, sorprendente.
La sorpresa fa l’effetto opposto: il quaderno della morte nell’opera originale ha diverse regole che lasciano ampio margine d’azione, esse vengono lette da Light e in base a ciò elabora strategie per programmare le morti e far fare determinate azioni ai condannati prima di morire, senza contare che esistono degli incentivi che se richiesti permettono a chi possiede il quaderno di avere conoscenze straordinarie. Il quaderno di Wingard invece ha circa una novantina e oltre di regole che sembra lo rendano più libero di agire (controsenso implicito), ma il Light americano è sfaticato e non le legge tutte – e da un lato ha pure ragione – anche perché il precedente possessore (che non è Ryuk) ha inserito delle note a margine su Ryuk, il cui nome è dunque scritto sul quaderno, anche se lo shinigami dice che nessuno è mai riuscito a scrivere più di due lettere del suo nome. A questo punto so che siete confusi, quindi non incalzo.
Idee semplici e brillanti sono state complicate rendendo tutto quello che accade ricco di controsensi e falle di ragionamento che solo chi ha scritto e diretto può capire ed apprezzare. La critica alla scelta di Wolff per dare volto a Light è stata la prima mossa dai fans in quanto Light è un ragazzo fuori dal comune in ogni aspetto, dall’intelligenza, alla morale, alla bellezza, caratterizzato da un fascino luciferino (richiamato sia dal suo nome che dal nick Kira) che accrescevano il suo carisma; l’ordinarietà che comunica Wolff è un passo falso che non ha niente a che vedere con il fanatismo. L’ordinarietà di Light Turner è la prima grande debolezza del film che non può risolversi, il fascino di Kira è qualcosa di molto più complesso e oscuro, una presenza costante in un’opera dall’estetica gotica, estetica totalmente assente nella sua trasposizione che crea un ulteriore mancanza di stile a un film che non sembra cogliere l’importanza dello stesso. Sempre parlando di estetica gotica, personaggi dal pallore vampiresco e profondi segni d’insonnia sono presenze d’obbligo in questo genere, nel caso di Death Note era Elle ad avere queste caratteristiche, perfettamente credibile nel suo aspetto insalubre in qualità di detective la cui mente non dorme mai, un aspetto diventato iconico nella cultura pop; la scelta di far vestire a Lakeith Stanfield il suo ruolo quindi è sembrata non solo provocatoria, ma sciocca, perché non ha nulla a che vedere con supposto razzismo: riuscireste mai ad immaginare Jules Winnfield interpretato da un attore caucasico con una lunga e liscia chioma bionda o il cacciatore di vampiri Blade incarnato da un magrolino attore dalla pelle bianco-latte? Tutto si può fare (anche se in questo caso si urlerebbe al white washing), ma cambiando l’estetica di personaggi iconici, si crea un nuovo personaggio, a cui è meglio dare un altro nome. Va detto comunque che nel cast Stanfield è l’attore più impegnato e che cerca di richiamare l’opera originale, ma è perfettamente credibile nei panni di Elle solo nella prima parte purtroppo, poi perde la testa anche lui diventando troppo emotivo ed impulsivo uccidendo la bellezza del personaggio di Elle che risiedeva nella sua compostezza e non donandogli un passato da sopravvissuto ad improbabili Hunger Games, come gli sceneggiatori hanno fatto.
Non sono però né Light né Elle i peggiori personaggi della trasposizione, in quanto potenzialmente potevano essere credibili se sorretti da una buona sceneggiatura e se gli fosse stato dato più respiro. Il personaggio peggiore, più problematico, si rivela essere Ryuk. Nell’opera originale Ryuk è uno shinigami annoiato che scende sulla terra in seguito alla perdita del suo secondo death note, ottenuto ingannando il re degli shinigami. Trovando gli umani interessanti decide di osservare l’opera di Light; è un suo alleato formalmente, fa alcune cose che aiutano Light, tuttavia sono azioni fatte con un certo distacco e che sottolineano il fatto che è un personaggio neutrale, caratteristica assente dal Ryuk dell’adattamento che spinge Light Turner a scrivere sul quaderno e ha una partecipazione attiva nel susseguirsi degli eventi che etichettano Ryuk come un personaggio di cui non fidarsi, una sorta di trickster che potrebbe morire se il suo nome fosse scritto nel quaderno, quindi lontano dall’essere un dio. Light Turner acquista un libro sugli dei della morte e vede in stampe antiche giapponesi la presenza del bel faccione di Ryuk, tuttavia la questione non viene più ripresa ed approfondita e chiunque non ha mai letto il manga (o visto l’anime, che è già di per se un adattamento bruttino) non saprà mai cos’è Ryuk, banalizzandolo come un personaggio malvagio.
Come premesso dalle prime righe di questa recensione non è il trasferimento in un altro contesto o il colore della pelle di un attore che invalidano e falliscono un adattamento, ma la presunzione del modificare le fondamenta dell’opera originale secondo il proprio gusto, secondo una scrittura non esattamente geniale, giustificando il tutto con la questione del contesto diverso.
Da fan dell’opera avrei apprezzato un adattamento fedele alla serie originale (chiunque l’avrebbe voluto), ma visto che voleva esser tutto adattato al contesto americano – ignorando che l’origine della storia è figlia del folklore nipponico – avrei trovato più sensato che tutto fosse profondamente modificato, nessun Light e nessun Elle, solo il quaderno – senza revisioni – protagonista, al massimo con Ryuk, o un altro shinigami che avesse fatto solo da spettatore. Così, com’è stato presentato, Death Note è un brutto film sia per un fan che per chi non ha conosciuto l’opera originale, un teen drama nevrotico e dalla brutta fotografia (David Tattersall che ha lavorato meglio in Star Wars al fianco di George Lucas, probabilmente per una questione di budget) che si armonizza alla sceneggiatura a groviera e una regia inconsapevole di quello che ha tra le mani e che ha lavorato forse pensando più a un sequel, che a quello che stava facendo.