Dopo aver omaggiato e allo stesso tempo parodiato la storia del cinema di fantascienza con il suo esordio Dark Star, nel 1976 John Carpenter celebra il suo amore per il western con una rivisitazione in chiave moderna del seminale Un dollaro d’onore di Howard Hawks, dando vita ad un’esplosiva miscela fra questo glorioso genere, il thriller e il noir, in una deflagrazione di violenza urbana che è facile associare all’altrettanto importante film di Walter Hill I guerrieri della notte, uscito solo 3 anni più tardi. Con Distretto 13 – Le brigate della morte (Assault on Precinct 13 il titolo originale), John Carpenter manifesta alcuni dei punti fermi del suo modo di fare cinema, come una minaccia invisibile ma palpabile che esacerba i conflitti e le tensioni fra i personaggi, la condizione di assoluto isolamento, la severa critica nei confronti delle istituzioni e la predilezione per dei veri e propri antieroi come protagonisti della vicenda.
Realizzato con un budget di poco superiore ai 100.000 dollari, Distretto 13 – Le brigate della morte impose definitivamente all’attenzione dei cinefili di tutto il mondo il talento del non ancora trentenne John Carpenter, capace di curare oltre alla regia anche altri aspetti fondamentali nella realizzazione del film, come la sceneggiatura, la colonna sonora e il montaggio (firmato con lo pseudonimo di John T. Chance, ovvero il protagonista del già citato Un dollaro d’onore) e di apportare forti elementi di novità e di rottura al cinema di genere della seconda metà degli anni ’70.
Il manifesto del cinema di John Carpenter
Il ghetto di Anderson nella Los Angeles degli anni ’70 è teatro di durissimi scontri fra bande di criminali e la polizia locale, che hanno precipitato il luogo in una situazione non lontana dall’anarchia. A seguito dell’uccisione da parte delle forze dell’ordine di alcuni banditi e della più che probabile rappresaglia dalla parte della gang alleata dei Voodoo, le autorità decidono di spostare il Distretto 13, sotto la supervisione del Tenente Ethan Bishop (Austin Stoker). L’edificio diventa però il teatro della battaglia fra i Voodoo e i presenti nell’edificio, coadiuvati dal condannato a morte Napoleone Wilson (Darwin Joston) e dal suo compagno di cella Wells (Tony Burton), giunti sul posto insieme al poliziotto Starker alla ricerca di cure per un prigioniero, e dall’addolorato padre Lawson (Martin West), in cerca di riparo dopo il barbaro assassinio della giovanissima figlia da parte della banda di criminali. L’inizio di una notte infernale, in cui il confine fra bene e male viene continuamente messo in discussione in una disperata lotta per la sopravvivenza.
Distretto 13 – Le brigate della morte è innanzitutto il manifesto del cinema del Maestro John Carpenter. Un cinema cinico e iperrealista, che fonde l’amore per i grandi classici americani con una narrazione tesa e disturbante, in cui il punto di vista è sempre frammentato e l’atmosfera è perennemente asfissiante. Un cinema che ha per protagonisti personaggi veri e tridimensionali, tratteggiati senza fare ricorso a flashback o a lunghe introduzioni, ma con poche rapide e precise pennellate, su cui imperniare un clima di insostenibile stallo e di crescente tensione e suspense.
La guerra urbana di John Carpenter fra western e horror
Una stazione di polizia in smobilitazione diventa l’ultima esigua barriera fra l’eterogeneo gruppo di protagonisti e una minaccia silenziosa, irrazionale e sempre più vicina. Carpenter narra magistralmente quello che fondamentalmente è un lungo e violento assedio, utilizzando i suoi celeberrimi temi realizzati al sintetizzatore e un esemplare montaggio alternato per rendere un senso di tangibile inquietudine, acuito dalla claustrofobia delle location e da una fotografia volutamente grezza e sgranata, adeguata al clima di sudiciume fisico e interiore in cui si muove la vicenda. Il Maestro fonde abilmente il soggetto di una pietra miliare come Un dollaro d’onore con la sua già manifesta passione per l’orrore, utilizzando degli inquietanti figuri senza nome e senza storia, concettualmente affini ai lenti e inesorabili zombi de La notte dei morti viventi di Romero, come motore di un’angosciante lotta per la sopravvivenza e di un sottile ma pungente attacco alle istituzioni americane.
Negli angusti spazi del Distretto 13 le regole e i ruoli sociali cessano di esistere, per lasciare spazio a un’organizzazione più disordinata e impulsiva, ma non priva di profondi codici morali. Messa alla prova da una minaccia non preventivabile e difficilmente analizzabile, la rigida e rigorosa macchina militare mostra così tutti i propri limiti e la propria inefficienza, nonché la sua pochezza d’animo nel trattamento del prossimo. Diventa così simbolica l’alleanza fra un poliziotto di colore, abituato a vivere in prima persona i pregiudizi e le più spregevoli bassezze, con un proverbiale uomo morto che cammina, deciso a difendere la propria vita e quella dei compagni nonostante la legge lo abbia condannato alla pena capitale. Lodevole inoltre l’inserimento nel racconto del personaggio dell’assistente Leigh, protagonista di un’attrazione con Napoleone che non sfocia mai in forzature melense e completamente estranee allo spirito del racconto.
Un ideale ponte fra la vecchia e la nuova Hollywood
John Carpenter dimostra la sua maestria dietro la macchina da presa, realizzando diverse sequenze da antologia (su tutte l’assassinio della figlia di Lawson) e riuscendo nella non facile impresa di mantenere sempre alto il ritmo del racconto, per poi trovare un climax finale di sorprendente intensità e violenza, nonostante le ristrettezze economiche in cui è costretto a operare. L’apporto di tutte le componenti, dall’angosciante colonna sonora alle tenebrose scenografie, dagli asciutti dialoghi al serrato montaggio, contribuiscono a creare un’atmosfera di inquietante pessimismo, dove le istituzioni hanno dimostrato tutti i propri limiti e decretato il loro fallimento, aprendo la strada a una società anarchica e brutale, in cui a dominare è la legge del più forte. Una società corrotta e distorta, che Carpenter pochi anni dopo porterà all’estremo con il suo seminale 1997: Fuga da New York.
Distretto 13 – Le brigate della morte è il primo perentorio ruggito di un regista che negli anni successivi piegherà a sua immagine e somiglianza i più disparati generi, raccontando al tempo stesso i vizi e gli eccessi della società. Un film che si pone come ideale ponte fra la vecchia e la nuova Hollywood, utilizzando archetipi e meccanismi tipici del western in un contesto di guerriglia urbana e con sfumature tipicamente horror, ponendosi come punto di riferimento per il cinema dei ghetti metropolitani degli anni successivi. Un cult troppo spesso dimenticato o sottovalutato di un maestro della Settima Arte, da vedere e rivalutare per comprendere al meglio la sua unica e inimitabile poetica.