Il 2020 si è aperto con il ritorno del conte più pop che la storia ricordi: Dracula, miniserie Netflix e BBC, disponibile sulla piattaforma dal 4 gennaio, è l’ultima delle innumerevoli trasposizioni su schermo del celebre romanzo di Bram Stoker, che da secoli stuzzica l’immaginario collettivo. A cedere alla vampiresca tentazione sta volta sono stati nientemeno che Steven Moffat e Mark Gattis, i creatori di un altro successo televisivo tratto dalle pagine dei libri, Sherlock, con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman. A modo loro i due autori hanno rivisitato, ma soprattutto analizzato, il mito di Vlad di Valacchia passato alla storia anche grazie alla letteratura.
Io non bevo mai… vino
Su Dracula sono stati scritti fiumi di inchiostro e girati innumerevoli film. Registi come Murnau e Herzog si sono confrontati con questo mito. Storia e protagonista sono stati variamente interpretati dall’epoca del cinema in bianco e nero, di cui Bela Lugosi resta il portabandiera, alle produzioni della Hammer che hanno consacrato Christopher Lee, fino all’insuperabile film di Francis Ford Coppola con un Gary Oldman destinato ad occupare il posto d’onore nell’immaginario romantico e dark. Quale strada percorrere, allora, per costruire un personaggio carismatico e il più possibile originale? Se nel look l’affascinante e azzeccato Claes Bang ricorda proprio Lugosi e Lee– capelli impomatati, mantello nero e rosso, occhi iniettati di sangue e affilata manicure- il suo senso dell’umorismo si distacca profondamente dai precedenti illustri. Spietato e cinico ma spiritoso e divertente, a questo Dracula si perdonano gli efferati omicidi e lo smodato appetito. Blasfemo e provocatorio quanto basta, il personaggio è il figlio naturale di Moffat e Gattis, che per creare il loro James Moriarty interpretato da Andrew Scott hanno intrapreso una strada simile. D’altronde, di canonico in questa serie c’è ben poco.
Un amico investigatore che vive a Londra
E le somiglianze con Sherlock non si fermano a questa vaga allusione di Suor Agata Van Helsing (!). Ognuno dei tre episodi porta il marchio di fabbrica del duo di showrunner. La disputa secolare tra Agata/Zoey (Dolly Wells) e il Conte perde progressivamente i tratti della lotta tra bene e male per diventare una gara di intelligenza. Il viaggio verso Londra a bordo della Demeter, aspetto marginale della vicenda, acquista il centrale ruolo di partita tra i due rivali, transizione anche fisica tra inizio e fine. Il tutto arricchito dai familiari twist (vedasi quello che riguarda Agata e Mina nella prima puntata), salti nel tempo e nello spazio, gabbie di cristallo ipertecnologiche per efferati criminali. La stessa indagine sul personaggio principale rivela una scomposizione scientifica della mitologia vampiresca: lasciato da parte il movente amoroso e l’innata cattiveria dei primi vampiri, emerge la ricerca di un minimo comune denominatore alla base delle leggende che aleggiano attorno a Nosferatu. Cos’è che spiega la paura della croce, del sole e degli specchi? La risposta all’indovinello è frutto di un ragionamento logico spiegato nel finale di stagione che apre innovativi spiragli nella psiche del protagonista, ma che avrebbe meritato maggiore approfondimento.
Dracula nel 2020
Dal finire dell’Ottocento alla nostra epoca di smartphone e avvocati, nei tre atti della serie si consuma uno sperimentale viaggio nel tempo. Se nel primo episodio vediamo il Conte esattamente come lo immaginiamo, nel castello labirintico su un dente di roccia sopra folte foreste, alla fine lo troviamo in un palazzo ultra moderno e terribilmente kitsch. L’allestimento e la fotografia vanno di pari passo con questa progressione cronologica, e infatti nella terza puntata abbondano luci al neon, fumi colorati, rappresentazioni stilizzate del subconscio dei personaggi. Difficilmente queste scelte creative andranno giù ai puristi della storia, e il risultato estetico è tutt’altro che eccelso. Alcuni effetti fanno molto casa stregata del Luna Park, come i contorsionisti ben truccati nelle segrete del castello, e l’eleganza non è stata presa in considerazione nella messa in quadro, alcune scene più che orrore suscitano ribrezzo o risultano grottesche. (Sì, il neonato vampiro e l’uscita dalla pelle di lupo rientrano tra queste).
A ben vedere l’approdo (troppo frettoloso) del vampiro nella nostra epoca non esprime niente più che la tendenza dei creatori della serie a voler contestualizzare i classici nel mondo moderno, e difficilmente si può parlare di intuizione. Ma di fronte a una storia scritta e riscritta in tutte le salse, spin-off e cross over, le strade da percorrere erano limitate. Anche se sarebbe stata gradita una maggiore indipendenza rispetto alle dinamiche di Sherlock, gli autori sono riusciti a congegnare un intreccio inedito, coronato da un finale romantico e mai sperimentato. Buona anche la conclusiva analisi del protagonista, le cui sfumature sono state lasciate all’ottimo lavoro espressivo di Bang nel resto degli episodi. Purtroppo la miniserie nel suo complesso risulta molto disomogenea e discendente, quanto a bellezza e qualità, mano mano che la visione procede.