A cavallo tra il 1943 e il 1944 l’anziana mecenate Florence Foster Jenkins (Meryl Streep), regina dei salotti e fondatrice del Verdi Club, è stanca di essere la donna immagine nelle rappresentazioni teatrali ispirate alle grandi opere liriche, lei vuole cantare.
Assistita dal marito, l’attore St. Clair Bayfield (Hugh Grant), ricerca un giovane pianista che possa accompagnare il suo canto, trovandolo nel giovane e discreto Cosmé McMoon (Simon Helberg). Madame Florence però è totalmente negata nel canto e il dramma sembra essere dietro l’angolo quando decide di dare un concerto, convinta di avere un talento innato e di poter conquistare il suo pubblico.
Madame Florence secondo Stephen Frears (e Meryl Streep)
Florence Foster Jenkins è stata una ricca ereditiera che più di ogni altro, probabilmente, ha contribuito a sostenere e finanziare la scena musicale lirica newyorkese del primo Novecento. Personaggi come Arturo Toscanini, per fare un esempio, non avrebbero potuto inscenare i loro spettacoli se non avessero ricevuto finanziamenti da Madame Florence e dal suo Verdi Club, nato proprio per per favorire l’amore e il supporto alla Grand Opera in lingua inglese.
Florence Foster Jenkins però è passata alla storia per essere stata la peggiore cantante d’Opera mai esistita, questione che – storicamente – ha lasciato molti dubbi: fu una trovata commerciale oppure la donna era realmente convinta di essere all’altezza di professioniste come Luisa Tetrazzini e Frieda Hempel?
Il sempre provocatorio Stephen Frears (The Queen, Philomena) racconta la sua versione nell’omonimo film su Florence Foster Jenkins, dove a vestire i panni della cantante è la sempre straordinaria Meryl Streep, corteggiata dalla produzione affinché la sceneggiatura di Nicholas Martin (al suo debutto cinematografico) fosse valorizzata, un abito fatto su misura per lei.
Madame Florence viene riscoperta come un personaggio straordinario, in un primo momento tanta eccentricità e fiducia in se stessa la rendono un personaggio comico, facile da deridere, ma tutto quello che lei è stata scopriamo che è stato per amore della musica, un amore per cui era stata anche diseredata e che l’aveva portata a rimboccarsi le maniche, lavorando come pianista, senza piangersi addosso. Passione e testardaggine sono forse le due caratteristiche che rendono questa donna straordinaria, non è un’eroina, ma c’è tanto coraggio in lei nel credere nelle sue capacità, tanto da convincersi di essere una cantante con una voce bellissima. Vuole concretizzare un sogno per condividerlo, convinta che la sua voce possa essere il dono più prezioso che può dare agli altri.
Eppure Madame Florence non dovrebbe affaticarsi, non dovrebbe provare forti emozioni deleterie per la sua salute; dietro ai suoi sorrisi, ai vistosi abiti e a una messa in piega sempre impeccabile, c’è una Florence fragile che solo suo marito conosce, una Florence debole e senza capelli, segno della sifilide che l’accompagna da cinquant’anni, dono della prima notte di nozze del suo primo marito. Florence è un caso straordinario, non si viveva con la sifilide oltre dieci anni, ma – come spiega il suo secondo marito, St. Clair – l’amore assoluto per la musica è stato per lei una panacea che l’ha fatta resistere per tutti quegli anni.
Meryl Streep riesce totalmente ad esser assorbita nel ruolo, mostrando le mille sfaccettature di questa donna coraggiosa, ingenua, testarda sopra le sue possibilità, che non appena mette piede in casa rivela la fatica del giorno, mostrando un’altra se, un’anziana gravemente malata che si fa bastare una notte di riposo per poi affrontare con tutte le sue energie una nuova giornata, impegnandosi nelle lezioni di canto in cui comicamente fallisce. Ricordando la bella voce dell’attrice in film come Mamma mia! e Into the Wood, il risultato comico è ancor più accentuato, ma nonostante ciò Meryl Streep non rende la cantante un feticcio da deridere, mostra di lei una moglie amorevole – grazie alla bellissima chimica creata con Hugh Grant – una donna con un lato materno verso Cosmé, un’amica premurosa verso i membri del suo club e una donna patriottica ed estremamente generosa nei confronti di chi crede si debba sostenere, dagli artisti ai soldati.
Un marito devoto
Se Madame Florence è l’indiscussa star e vortice di energie di questo film, è St. Clair ad essere sempre presente sullo schermo, forse il vero protagonista, in quanto sostenitore impegnato delle idee e delle fatiche della moglie. Per tutto il suo matrimonio si rivela un angelo custode che cerca di far vivere Florence in una campana di vetro, allontanandola da qualsiasi male e qualsiasi critica, viziandola e lodandola per preservare la sua salute.
Madame Florence può forse cantare col cuore, sicura delle proprie capacità, ma il pubblico non sempre è suo amico, il pubblico è il mondo, un mondo che può essere ignorante, critico, crudele… e St. Clair è disposto a pagare, corrompere, allontanare pur di far credere alla moglie che tutti l’adorino e che le recensioni sui giornali siano genuinamente entusiaste.
Indubbiamente St. Clair si rivela un marito devoto, ma non santo come il suo nome potrebbe far credere: egli ha una doppia vita, vive in un palazzo lontano da sua moglie, dove convive con la giovane Kathleen Weatherley (interpretata da Rebecca Ferguson, meglio conosciuta come la Elizabeth Woodville protagonista di The White Queen). Ciò non rende meno sinceri i suoi sentimenti per la moglie, per la quale – su sua stessa ammissione – ha una reale devozione che non può paragonare a quello che prova per Kathleen, si potrebbe in un certo senso dire che è diviso tra agape e eros.
Hugh Grant nel ruolo di St. Clair (straordinariamente invecchiato, grazie alla magia del make-up), è magnifico; un attore del suo calibro sembra improbabile che possa donare qualcosa di nuovo nel recitare, eppure St. Clair è indubbiamente uno dei suoi ruoli migliori e per il quale attendiamo dei riconoscimenti.
Un biopic diverso
I biopic sono sempre affascinanti e emozionanti, questo si può riscontrare nel fatto che il personaggio in questione è quasi sempre messo sotto una luce di assoluta ammirazione, genialità e coraggio che facilmente tende a drammatizzare, sfociando spesso nel melodramma perché il personaggio è stato eroe, martire, o semplicemente incompreso. Con Stephen Frears questo rischio non c’è, la sua pungente ironia non ci abbandona e la protagonista, più che una diva, è una simpatica vecchietta svampita che sembra uscita da un film Disney. Divina è solo l’immagine che lei ha di se, convinta di poter esser una valchiria, una musa, un angelo, una regina. Ed è così che il film conquista e funziona: mostrando personaggi assolutamente umani. Umano è St.Clair nella sua doppia vita; umano è l’insegnante di canto che loda la donna e che non appena sa del concerto chiede discrezione per non essere associato a Florence; umano è McMoon che non è un eccellente pianista e che non vorrebbe esibirsi con la donna, ma il denaro di lei è più allettante dell’integrità della sua reputazione.
Il dramma c’è, tutto il film ha una venatura drammatica, eppure non pesa, tanto che è difficile considerarlo un film drammatico in quanto il lato della commedia è brillante e predominante, ma se per commedia si vuole intendere una messa in ridicolo di un personaggio allora c’è da rivedere totalmente il significato di commedia, perché non è questo e non è nelle intenzioni del regista mostrare qualcosa di volgare ed irrispettoso.
In un cinema a cui piacciono i drammi strappalacrime ce n’era bisogno; per la critica è un difetto, una leggerezza, ma non c’è nulla di leggero e superficiale nel lavoro di Frears, sia nelle sue attenzioni dedicate ai personaggi, quanto nelle attenzioni dedicate alla messa in scena. Parlare di fedele ricostruzione della New York degli anni Quaranta è un’eufemismo in questo film che fa davvero vivere quella New York: dall’opulenza negli interni di casa Foster, dei saloni del Ritz-Carlton Hotel, al meraviglioso Carnagie Hall; per poi interessarsi alle strade di New York con le sue locandine pubblicitarie e le carte a terra di una florida scena culturale. Nulla sfugge all’obiettivo, ogni inquadratura è ricca di dettagli storici e attui a far vivere quel periodo nel modo più accurato e realistico, persino dando importanza alla spazzatura o al dettaglio al margine dell’inquadratura.
Se per molti sceneggiatori e registi è importante far piangere per rendere omaggio a un grande artista, per Frears sembra piuttosto importante che ogni cosa brilli: dalla recitazione ai costumi, dalla fotografia di Danny Cohen (nomination all’Oscar alla migliore fotografia nel 2011 per Il Discorso del Re) alla scenografia. La morte è una compagna pronta a palesarsi, ma Madame Florence canta perché ama farlo, per lei è divertente e lo diventa anche per gli altri personaggi e, in questo modo, esorcizza il suo male e omaggia la vita, con un inno stonato, imperfetto, ridicolo, debole, ma in cui Florence crede e ama, metafora probabilmente di tutte le nostre vite che vale la pena vivere nelle loro imperfezioni, piuttosto che usarle come fazzoletti per soffiarsi il naso.