Quando è stato dato l’annuncio sul live action di Fullmetal Alchemist il suo fandom ha trattenuto il fiato e troppe emozioni – eccitazione, nervosismo, paura, speranza – perché parliamo di una serie culto che ha avuto un forte impatto a livello globale.
Fullmetal Alchemist nasce come manga disegnato e sceneggiato da Hiroku Arakawa che all’uscita del terzo volume – grazie al record di vendite – spinse Square Enix a chiedere una serie anime nel 2003 liberamente tratta dal manga, con la regia di Seiji Mizushima e su soggetto di Shō Aikawa (che vide il suo epilogo con il film Il conquistatore di Shamballa). Per un adattamento anime fedele al manga si è dovuto aspettare il 2009 con la serie conosciuta da noi col nome Fullmetal Alchemist Brotherhood (in Giappone semplicemente chiamato Hagane no renkinjutsushi – Fullmetal Alchemist), ma gli adattamenti e spin-off non sono finiti, in quanto la serie conta numerosi OAV, light novels e videogames che raccontano avventure alternative dei fratelli Elric.
Una serie simile è difficile da toccare, la prova vivente è la serie anime 2003, ingiuriata e dimenticata, nonostante fosse opera di uno dei più grandi registi d’animazione (Mizushima) e uno dei migliori sceneggiatori giapponesi (Aikawa).
L’anime ha vinto importanti premi, trionfando in quasi tutte le categorie all’Anime Grand Prix del 2003, mentre l’ultima puntata vinse il premio di miglior episodio anime dell’anno nell’edizione 2004; ciliegina sulla torta – sempre nel 2004 – al Tokyo International Anime Fair l’anime vinse come miglior storia originale. Eppure Fullmetal Alchemist Brotherhood – per la sua fedeltà al manga – è il preferito del pubblico che ha rinnegato il precedente anime e trasformato fan in detrattori, nonostante Brotherhood non abbia mai goduto del favore della critica e ottenuto riconoscimenti. Questo per darvi un’idea dell’affetto che si prova per l’opera originale e, capirete, per Fumihiko Sori, regista e sceneggiatore del live action, adattare in 2 ore 27 volumi è stata una sfida a dir poco ardua.
Una grande avventura steampunk tra buchi neri e sorprese
Edward e Alphonse Elric sono due bambini che sognano di diventare alchimisti, hanno già ottime capacità, in fondo sono figli di un famoso alchimista che purtroppo è sempre assente.
Improvvisamente la loro mamma muore e si ritrovano soli, con le loro capacità alchemiche però decidono di resuscitare la donna e compiere la proibita trasmutazione umana.
I due bambini ignorano il principio dello scambio equivalente su cui si fonda l’alchimia: non si può ottenere qualcosa se non si dà in cambio qualcos’altro dello stesso valore. La trasmutazione umana diventa un incubo: Edward perde una gamba, Alphonse il suo corpo e la loro madre è qualcosa di non umano. In una situazione tanto disperata Ed sacrifica un braccio per poter salvare almeno l’anima di Alphonse che lega ad un’armatura (realizzata completamente in CGI).
Anni dopo Ed, adolescente, è entrato nell’esercito in qualità di alchimista di stato per poter far ricerche e trovare la pietra filosofale, l’unica speranza per poter ridare a sé stesso e ad Al i loro corpi. Una speranza riposta in uno Stato dittatoriale comandato dall’esercito e dal führer King Bradley.
L’avventura inizia a Reole (Volterra) dove Ed si scontra con Cornello, per poi trasferirsi a East City (parzialmente Firenze) dove grazie al generale Hakuro, Ed e Al hanno la possibilità di far ricerche presso la casa del famoso Alchimista Shou Tucker. Egli pensa di poter far riacquistare ad Al il suo corpo, lavorando con l’ipnosi, mentre Ed – in compagnia della sua amica Winry – va alla ricerca del dottor Tim Marcoh. Importanti figure di supporto sono il colonnello Roy Mustang (seguito sempre dalla fedele Riza Hawkeye), eroe di guerra conosciuto come l’alchimista di fuoco, che si preoccupa di incoraggiare Ed nella ricerca, quanto Maes Hughes che si trova a East City per indagare sull’amico Roy per i presunti crimini commessi a Ishval.
La storia ha davvero molta carne al fuoco, tanti personaggi da sacrificare in funzione della trama e poche spiegazioni da fornire sulla guerra di Ishval, il ruolo degli alchimisti di stato all’interno dell’esercito e sulla storia di Amestris e il suo governo militare. Non c’è Izumi, non c’è Hohenheim, non c’è Scar. Non c’è la brigata Mustang al completo né tutti gli Homunculus, come assenti sono i personaggi di Xing ed altri che sembrerebbero necessari alla trama. Tutto sembra un grande buco nero pronto ad inghiottire qualsiasi barlume di credibilità ma – sorpresa! – non lo è.
La sceneggiatura è stranamente convincente, basandosi principalmente sui tre volumi del manga (per poi fare qualche importante salto in avanti) riesce ad intrecciare più eventi, più plot, stringendoli principalmente intorno ai fratelli Elric, Mustang, Winry, Hawkeye e Hughes. Ci sono momenti per esplorare i rapporti che li legano in scene inedite al manga, capaci di creare emozioni genuine in un fan che non vede pallide copie dei suoi personaggi preferiti, ma delle versioni credibili, nella loro miglior forma; il carattere comico è quasi totalmente ripulito ed il lungometraggio evoca maggiormente atmosfere angst, come quelle presenti nell’anime del 2003.
Quella grande quantità di carne al fuoco ha parti crude e parti bruciate totalmente indigeste, ma i pezzi migliori sono buoni e digeribili, se si tiene a mente di che tipo di prodotto si tratta ed i suoi mezzi.
Problemi e virtù di un live action
Io immagino come debba essersi sentito Fumihiko Sori nel momento in cui gli è stato detto di scrivere una sceneggiatura per Fullmetal Alchemist dandogli un piccolo budget e necessitando di computer grafica per buona parte del film, una CGI molto usata ad Hollywood, in film della Marvel, ma che era inedita in Giappone, a detta di Sori. Realisticamente parlando non era cosa fattibile, soprattutto contando la trasferta italiana e il coinvolgimento degli idol del momento.
Sori si è dichiarato fan di Fullmetal Alchemist, rassicurando il pubblico che mai avrebbe offeso l’opera originale; così si è rimboccato le maniche e si è messo al lavoro per compiere un vero e proprio miracolo.
Il problema dei live action giapponesi sta in piccoli budget e in una mediocre/scarsa/inesistente tecnica cinematografica (riservata o ai film d’animazione o ai film non live action, sia mai che si fraintenda), talvolta accompagnata da un cast di attori-non attori o debuttanti, con l’aggiunta di CGI spesso dannosa che – è evidente – non si sa padroneggiare: il risultato è la parodia di un film, una sorta di recita in cosplay.
Teniamo lontani dunque i giapponesi dalla realizzazione cinematografica delle loro opere? Ovviamente no, anche perché spesso la presunzione occidentale sa solo padroneggiare delle tecniche (non sempre riuscite) invalidando e snaturando l’anima di un’opera, in quanto ci si appropria della serie originale cambiandola presuntuosamente secondo il proprio gusto, come è stato per Death Note. Si fosse Steven Spielberg si potrebbe giustificare una versione spielbergiana di un Death Note o un Dragon Ball, eppure i più grandi dimostrano molta più umiltà verso tali opere (come stanno dimostrando James Cameron e Robert Rodriguez nel loro faticoso lavoro) e i live action giapponesi sono pregni di questi sentimenti, nonostante i loro difetti.
Teatralità ed alchimia nel cast
Gran parte dei live action giapponesi non funzionano davvero come prodotti cinematografici o serie tv, piuttosto rendono molto bene come opere teatrali e musical; avendone viste diverse posso dire che il segreto del successo quasi sempre sta nella fedeltà che hanno verso lo spirito dell’opera e il grande lavoro di studio per i personaggi. Purtroppo l’impostazione teatrale davanti a una telecamera è grottesca, soprattutto lì dove si vuole eccedere con gesti ed espressioni sensati solo in un anime/manga.
Mentirei se dicessi che non c’è una certa teatralità in Fullmetal Alchemist, talvolte drammatizzata, altre voltre stucchevole, in particolare nelle scene in cui è presente Tsubasa Honda (Winry). Honda è una vera celebrità tra serie tv e film, oltre che ad essere una modella particolarmente desiderata, ma purtroppo è legata a un recitazione che va ad imitare gesti ed espressività del personaggio che sono fin troppo sopra le righe per il cinema e purtroppo anche attori più anziani tendono a cadere in questo vizio (?). Il rischio che questa stramba teatralità potesse esser proprio di tutto il cast era alto ma, nonostante qualche scivolone, c’è un discreto livello di recitazione e la stessa Honda ha riprese nelle parti più serie ed è una Winry che sa rivestire un ruolo – forse – piacevolmente più importante dell’originale.
Ryōsuke Yamada, teen idol star del gruppo Hey! Say! JUMP, ha già debuttato nel mondo della recitazione e dei live action (era Nagisa Shiota in Assassination Classroom, per esempio), ma vestire i panni di un personaggio come Edward Elric non è facile. Ed è un protagonista che ha in sé modi sfacciati, un senso di colpa gravoso, uno spirito di sacrificio da vero autolesionista, una sorta di eroe romantico da romanzo di fine Ottocento, decadente e affascinante, ma senza alienare da sé alcune leggerezze tipiche dell’adolescenza. La complessità di Ed è stata ben colta da Yamada, a pochi minuti dall’inizio del film è già possibile vedere il sorriso arrogante ed i suoi modi baldanzosi, dal primo approccio Yamada evoca nostalgiche immagini dell’alchimista d’acciaio che riescono ad accattivare il pubblico in favore del lungometraggio; se si storce decisamente il naso con la CGI – soprattutto durante le trasmutazioni alchemiche – la voce fanciullesca di Atom Mizuishi (Al) addolcisce l’atmosfera, inoltre bisogna dire che l’armatura è molto più convincente di tutto il resto realizzato con tecnologie che – è evidente – non sanno essere gestite al meglio. Eppure, nonostante l’assenza fisica di Al, le interazioni tra i fratelli Elric sanno scavare nel profondo del loro legame, nel dolore che condividono, lasciando emergere quei tratti morbosi caratteristici dell’anime 2003 e c’è – è il caso di dirlo – un’alchimia unica tra i due che riesce ad essere riportata in modo totalmente convincente. Il legame tra i fratelli Elric è l’anima di questa storia, sbagliare nel rappresentarli avrebbe invalidato al 100% il film, invece c’è un’illusione che richiama a qualcosa di autentico e per cui tutti i difetti del film riescono ad essere perdonati.
Anche Roy Mustang è un elemento che riesce a perdonare tante cose al film. Mustang è interpretato dall’idol Dean Fujioka e pensavo che non appena apparso avrei iniziato a cantare can you hear my heartbeat? I’ve got a feeling it’s never too late… (per chi non lo sapesse sono i versi di History Maker, l’opening theme di Yuri! On Ice, eseguita dal nostro idol), un bello che non ballava in poche parole, invece è probabilmente l’attore più credibile nel personaggio più riuscito. Premessa: il Mustang originale è ironico, seducente, ha la battuta pronta e lo spirito flirtante, queste caratteristiche sono assenti nel Roy Mustang del film, ma non per questo difetta di allontanarsi dal personaggio. Sori fa rivestire a Roy un bel ruolo prendendo la sua parte più seria, lo carica d’importanza, d’impegno, di drammaticità, spirito di sacrificio, le caratteristiche che lo rendono “più figo” ma anche più vicino all’alchimista d’acciaio, con il quale ha confronti importanti e una certa interessante complicità. Mustang e Edward sono dei duri dal cuore tenero, pronti a sacrificarsi e spingersi oltre i limiti per chi è importante (avete capito di chi parlo, no?), ombra e riflesso dell’altro che in questo film non lasciano troppe cose irrisolte tra loro, inoltre vi è un’implicito richiamo a quanto siano simili anche nei rapporti “fraterni”, infatti il legame tra Mustang e Hughes fa eco a quello dei fratelli Elric, elementi reali anche nella serie, ma resi più palesi attraverso scelte originali. E parlando di Hughes, anche se non lo vediamo nelle vesti di padre dell’anno (perché Elycia non è nata), chi lo interpreta, Ryuta Sato, è tra i migliori attori del cast, insieme a qualche al grande Jun Kunimura (Tim Marcoh) e al giovane e talentuoso Kanata Hongō (Envy), due attori che purtroppo non hanno un minutaggio importante come altri.
Opera di un fan per i fan?
Alla fine del film ho avuto gli occhi umidi e vorrei poter dire a causa di una scrittura inconsapevole e una fotografia orribile, ma non è così. Ero piena di pregiudizi verso il live action della serie a me più cara, ma il regista di Ping Pong e Dragon Age: Dawn of the Seeker ha saputo sorprendermi in positivo.
Per un amante del bel cinema il film è oltremodo sconsigliato e criticarlo sarebbe come sparare contro la Croce Rossa; budget stellari possono produrre gioielli come Ghost in the shell, altri importanti budget riescono a creare mostri come Dragon Ball o Death Note, miseri budget però devono accontentarsi di far quadrare tutto ed il confronto, a questo punto, porta a favore del film che sa rispettare il concept originale. Fumihiko Sori si è probabilmente reso conto di quanto potesse esser ridicolo usare brutte tinte su capelli non decolorati, i personaggi – eccetto Mustang – sono caucasici, ma cosa poteva fare? Ha risposto in un’intervista che ha cercato di non renderli giapponesi davanti all’obiettivo nel modo di esprimersi ed essere, ha usato un setting occidentale e finalizzato il tutto a creare una storia autoconclusiva in due ore, lasciando aperta la possibilità di sequel. Alla fine è molto più di quanto si potesse sperare.
Credo che il lavoro sia molto più di un compitino portato a casa, rispetto a tante produzioni nipponiche di questo tipo ci sono delle intenzioni e il desiderio di lasciare un’identità, una firma da accostare a quella di Hiromu Arakawa. Questo non è il Fullmetal Alchemist di Fumuhiko Sori attaccato dal suo ego, ma è un adattamento nel gusto artistico (e nelle possibilità) di Sori verso il soggetto della sensei Arakawa, una sperimentazione che pur ricca di difetti ha molti più pregi di quanto sembri, con dettagli di visivi che colmano lacune, un ritmo narrativo coinvolgente, veloce, ma non eccessivo e, soprattutto, ha originalità. C’è spazio per osare, senza interferire con il soggetto che non è banalizzato, ma ritagliato secondo una convenienza che funziona nella sequenza degli eventi.
Si poteva avere un film studiato per un effetto nostalgia privo di personalità, un remember remember che non osava e non dava spazio d’introspezione, invece questo Fullmetal Alchemist ha saputo incastrare con sottile intelligenza elementi che hanno creato un bel effetto nostalgico, con spazio all’introspezione e a momenti inediti del tutto nelle corde e nel rispetto dell’opera originale; ciò mi fa credere che sia stato fatto tutto quel che era possibile con amore, da un fan per i fan.
Non posso fare lodi al film in sé, ma all’impegno sì, da fan – forse troppo emotiva, anche nello scrivere – ho apprezzato e trovato il tutto molto godibile.