A più di un anno dall’ultima messa in onda, su Fox torna a suonare il jazz dell’inconfondibile sigla di Homeland: Carrie Mathison è tornata a casa, a New York. La serie di Showtime ideata da Howard Gordon, Alex Gansa, Gideon Raff e diretta da Michael Cuesta giunge alla sua sesta stagione, del tutto proiettata nel presente come lo conosciamo, pronta a rispondere alla domanda che dallo scorso finale ha lasciato sospesi e sgomenti i fan: che fine ha fatto Peter Quinn?
Fermatevi qui se non volete saperlo.
Quasi a farsi perdonare l’attesa, smorzata da rumors ed enigmatiche dichiarazioni, la prognosi sul destino della spia viene sciolta già nei primi minuti dell’ episodio, nei quali l’agente Quinn ci è mostrato vivo, ma non molto vegeto, in preda a un dramma esaltato dall’ottima prova di Rupert Friend. Nonostante la determinazione di Carrie, una sempre splendida Claire Danes, a tenersi lontana da Langley, il quadro è tutt’altro che lineare. Tra la minaccia del terrorismo in internet e una nuova Presidentessa degli Stati Uniti ostile al team Berenson-Adal, la narrazione segue a doppio filo le più importanti stanze del potere quanto i sobborghi dimenticati della città. La trama si snoda realistica, cruda, a tratti toccante, spalleggiata da una fotografia dai toni freddi, nella zona grigia interposta tra il male dell’estremismo e le colpe dell’Occidente.
Fair Game, un esordio che si concede tempo per riprendere le fila della storia ma non manca di predisporre le tessere dell’intrigo sul quale, come i fan della serie ben sanno, si intuisce incombere il colpo di scena. Ancora una volta gli eventi ci conducono nel loro imprevedibile fluire, attraverso attuali questioni geopolitiche e le macchinazioni dei protagonisti, portati alla vita da un cast arricchito e nella solita forma smagliante. Quale sarà la meta? Non ci resta che stare a guardare.