In questi ultimi tempi, la scelta di girare remake di pietre miliari della cinematografia mondiale sembra molto in voga per le vie di Hollywood. Ghostbusters, Ben Hur, I Magnifici Sette solo in questo 2016. Vi sembra un po’ troppo? A volerla dire tutta, l’idea di poter ottenere un nuovo film – e con esso nuovi danari – riadattando un prodotto già girato e distribuito è sempre mulinata vorticosamente nelle menti di produttori e registi, sin dal lontano 1896, anno del primo remake della storia (Partie de cartes, Méliès). Se talvolta si è riusciti nell’ostico compito di eguagliare o addirittura migliorare l’originale (si vedano a mero titolo di esempio L’uomo che sapeva troppo, Cape Fear, The departed), molto più spesso il risultato è un grossolano fallimento, che indigna al tempo stesso critica e appassionati.
Entriamo quindi nel merito di questo I magnifici sette di Antoine Fuqua, che muove i suoi passi in un terreno ancora più insidioso. Non si limita infatti ad essere il remake di un film cult, ma con tracotanza osa essere il remake del film di John Sturges del 1960 a sua volta ispirato ad un altro irraggiungibile capolavoro, I sette samurai di Akira Kurosawa. Proveremo a spiegarvi se tanta presunzione sia stato o meno ripagata.
“Mi hanno offerto molto per il mio lavoro… ma mai tutto”
Rose Creek è un piccolo villaggio di coloni, la cui quieta ed assonnata vita è improvvisamente interrotta dalle angherie dell’onnipotente magnate Bartholomew Bogue (Peter Sarsgaard). Questi, ingolosito dai ricchi giacimenti aurei della regione, è deciso al suono delle colt dei suoi sicari ad impadronirsi delle terre degli inermi contadini. L’intera cittadina è sotto il suo giogo, fatto di violenze, esecuzioni e di centinaia di uomini armati. È la vedova di una delle vittime, Emma Cullen (Halley Bennett), a volere più di tutti una riscossa. In cerca di giustizia (e di vendetta) e pronta ad offrire tutto ciò che il villaggio possiede, incontra Sam Chisolm (Denzel Washington), funzionario statale a caccia di criminali, pronto a portare sulle proprie spalle il peso di un’impresa che sembra disperata. Insieme a lui si formerà progressivamente un gruppo eterogeneo di uomini di (più o meno) valore: un ex sudista, un cinese, un cheyenne, un messicano, un irlandese ed un gigantesco predicatore svitato. Sette uomini armati fino ai denti, con coraggio da vendere e pronti a lasciare la propria vita a Rose Creek. I magnifici sette.
Un western come un altro…
Lo spettatore ha davanti una possibile scelta. Comprare il proprio biglietto e guardare il film, fingendo di non saperne niente, fingendo che quel titolo non evochi in lui nulla, nessuna risposta emotiva, nessuno squisito ricordo. È un lavoro complesso da fare, ma – chissà? – potrebbe valerne la pena. Cosa resta dunque dei I magnifici sette, una volta emancipato dal gravoso confronto con i due precedenti? Una pellicola viziata da un eccesso di prevedibilità e da un abuso di stereotipi, mali che da sempre hanno ammorbato il novanta percento della cinematografia western mondiale, quasi fossero componenti insite al genere stesso. Se si prova però ad andare oltre questi peccati originali, ci si può accorgere che la pellicola ha una sua piacevole scorrevolezza, lasciandosi infatti guardare senza stancare o annoiare. Un prodotto in grado, nel complesso, di fornire un godibile intrattenimento, specie ad amanti di pistoleri ed indiani. Centotrentadue minuti di cinema gradevole, destinati ad essere dimenticati dopo qualche birra.
…o I magnifici sette?
Scegliere di girare un remake impone, però, un’assunzione di responsabilità dalla quale è difficile potersi sottrarre. Un confronto è inevitabile ed il giudizio sulla pellicola non può che dipendere, giocoforza, da questo. Il western è uno dei generi più classici della storia di Hollywood. I magnifici sette del 1960 è uno dei più classici film western ed al contempo è il remake di uno film più importanti della filmografia nipponica. Un confronto, dunque, non con uno, ma con due titani. Visto sotto questa luce, ciò che rimane del giudizio precedente finisce con l’assomigliare a quello che resta di una carogna dopo un banchetto di avvoltoi. Senza entrare nel merito delle differenze di trama tra i due I magnifici sette (che sono diverse e del tutto legittime, in un tentativo di aggiornare la pellicola, rendendola più moderna), la versione del 2016 non può che impallidire. Impallidisce la colonna sonora. Impallidisce la credibilità di alcuni dialoghi. Impallidisce la caratterizzazione dei personaggi: siamo anni luce dal tormentato spessore del Chris Adams interpretato da Yul Brynner. Impallidisce il cast. Non che le performance attoriali siano da buttare, anzi. Eppure nulla di eccezionale, di certo nulla di memorabile. Anche il discreto lavoro di Denzel Washington non regge il confronto e risulta per buona parte del tempo piatto e stereotipato. E come si potrebbe reggere il paragone con un film interpretato, tra gli altri, da Yul Brynner, Eli Wallach, Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn? Non occorre aggiungere altro, essendo stati citati nomi scolpiti nel marmo dell’Olimpo della mitologia hollywoodiana. E il peccare di tracotanza nei confronti degli dei, si sa, è il peggiore dei peccati.