“Io credo che i personaggi delle grandi storie finiscano per diventare più reali di quelli che ci stanno accanto” confessa un’elegante, algida Natalie Portman al recentemente scomparso e profondamente compianto John Hurt in una delle ultime scene del film. Il proposito della pellicola pare proprio quello di colmare quel gap tra personaggio e persona proprio nel momento più critico e doloroso della sua esistenza per quella straordinaria icona – nel senso più puro ed etimologico del termine – del secolo scorso che era ed è tutt’ora Jackie Kennedy. Pablo Larrain torna a dipingere una grandiosa e monumentale monografia biografica dopo il successo di Neruda.
Tra politica e verità
L’espediente narrativo utilizzato non è nuovo e lo si vede spesso utilizzato nell’ambito dei biopic, come in Chaplin (1992): un cronista di nome Theodore H. White (Billy Crudup), ad una settimana dall’assassinio di J.F. Kennedy a Dallas ad opera di Lee Oswald si reca ad intervistarne la vedova, Jacqueline (Natalie Portman). La donna si racconta al giornalista: il suo ruolo di first lady, il suo matrimonio, il rapporto con i figli, con particolare riguardo a quelli persi, Arabella e Patrick, l’omicidio del marito, ciò che ha attraversato dopo, ripercorrendo i momenti salienti dei suoi due anni di mandato alla Casa Bianca. Questo dialogo viene spesso intervallato ad un secondo piano narrativo, in cui Jackie si confessa ad un sacerdote cattolico (John Hurt). In entrambi i casi si ha la sensazione che la donna non sia mai completamente sincera e ceda alla tentazione di identificarsi con il mito che essa incarna. La Portman di questo ritratto ha affermato: “È un biopic che non dà risposte”, proprio come lo sguardo impassibile e vitreo della sua Jackie.
Estetica del dolore
I colori della pellicola oscillano tra un bianco accecante ed asettico ed un nero optical, cianotici pastelli e tinte fredde e neutre in perfetta sintonia cromatica non solo con il gusto del periodo storico rappresentato ma anche con gli stati d’animo della protagonista e del fratello di John, Bobby (Peter Sarsgaard). Il taglio nitido, pulito e sartoriale tanto degli abiti di Jackie quanto delle inquadrature raccontano una personalità complessa e sfaccettata imbrigliata dalla propria smania di controllo. Tutto sembra suggerire lo sforzo di mantenere una facciata stabile, serena, quasi un mentre l’universo interiore (ed esteriore) dei protagonisti crolla inesorabilmente. La fotografia spesso indugia su prolungati campi lunghi in cui emerge la figura di Jackie, solitaria e sommessa (come la sua voce).
“Ci sarà sempre una Camelot…”
Verso il finale, Jackie cita il musical Camelot, il preferito del marito, tratto dal romanzo Re in eterno di T.H. White, incentrato sulla storia di Re Artù. Il parallelismo tra la parabola interrotta bruscamente del giovane leader, prima che potesse effettivamente avere l’opportunità di imprimere una propria concreta impronta nella storia del Paese, come si rammarica il fratello Bobby, e la leggenda di Re Artù, il buon sovrano illuminato, e dei suoi dodici cavalieri, è palese. Non avendo avuto l’occasione di dimostrare sul piano pratico la propria capacità politica, la figura di JFK si ammanta di un’aura fiabesca, così come quella del Re d’Inghilterra sepolto ad Avalon. Per Jackie, il culto del mito, dell’epopea del marito diventa un modo per sopravvivere, travalicando i confini della reale dimensione umana di Kennedy, finché ciò che lui rappresentava diventa più vero di ciò che era realmente perfino per la sua stessa vedova.
Finale un po’ retorico e melò, ma sicuramente dolce-amaro.