Nel nostro presente non troviamo strano che l’interpretazione fanatica di Scritture Sacre spinga degli uomini in guerra; è paradossale, un pretesto blasfemo per le loro azioni, ma ormai non suona nuovo alle nostre orecchie.
Anche il giovane Desmond Doss (interpretato da Andrew Garfield), dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor (avvenuto il 7 dicembre 1941), spinto dalla sua profonda religiosità, si arruola nell’esercito americano per combattere a Okinawa. Il soldato Doss è abile, veloce, capace, tra i migliori arruolati, ma quando arriva il momento di provare ad imbracciare un fucile Desmond non lo tocca: ha promesso non toccherà mai un fucile, perché non è lì per uccidere, e non si tratta di una commedia o di una storia surreale. I fatti narrati ne La battaglia di Hacksaw Ridge sono tratti da una storia vera che meritava di essere raccontata e a cui si è lavorato per ben 14 anni per poterla portare sullo schermo ed onorare Desmond Ross, scomparso nel 2008.
Conosciamo Desmond come un bambino che durante una rissa col fratello, prendendo in mano un sasso, lo colpisce violentemente e per poco non lo uccide. Desmond si rende conto della gravità del suo gesto e del fatto che stava per violare uno dei 10 comandamenti e ne rimane turbato, soprattutto quando da adolescente si ritroverà a puntare un fucile contro suo padre (Hugo Weaving) – uomo segnato dalla guerra – per difendere sua madre dalla violenza dell’uomo. Da quel giorno Desmond promette non toccherà mai più un’arma e cresce con rigido rispetto del credo cristiano-protestante della Chiesa avventista del settimo giorno.
Quando Desmond è ormai ventitreenne, salvando la vita a un uomo e accompagnandolo in ospedale, s’infatua della bella infermiera Dorothy Schutte (Teresa Palmer) e cerca in tutti modi di attirare la sua attenzione e invitarla ad uscire con lui, corteggiandola con piccole premure. Desmond non è solo affascinato da Dorothy, ma anche dal suo mondo lavorativo, avrebbe infatti voluto poter studiare e diventare medico per aiutare e salvare vite, ma non ha potuto. Dorothy e Desmond iniziano così a conoscersi, uscire insieme, entrambi s’innamorano l’uno dell’altra, ma un giorno – come un fulmine a ciel sereno – Desmond comunica di esser entrato nell’esercito (come suo fratello ha fatto prima di lui) facendo infuriare Dorothy, ma promettendole anche di sposarla alla sua prima licenza.
Nessuno vicino a Desmond è favorevole alla sua idea, nessuno ha tanto orgoglio patriottico, in particolare suo padre che è diventato un alcolizzato violento da quando è tornato dalla Prima Guerra Mondiale, non riuscendo ad accettare la morte dei suoi compagni ed amici di sempre che – quotidianamente – visita al cimitero.
Desmond però non ha paura, è convinto che starà bene e mostra questo suo spirito ottimista e propositivo dal suo primo giorno di reclutamento; non cade nelle provocazioni, fa del suo meglio per andare d’accordo con tutti e s’impegna negli allenamenti, risultando il migliore del suo corso in molti casi e suscitando una forte antipatia nel compagno Smitty Ricker (Luke Bracey). Quando però arriva il momento di esercitarsi con le armi, Desmond non tocca il suo fucile e con sconcertante candore riferisce al sergente Howell (Vince Vaughn) che lui ha promesso di non toccare nessuna arma e che il sabato pregherà e non lavorerà.
Desmond viene portato direttamente dallo psicanalista allo scopo di congedarlo per infermità mentale, ma non c’è nulla che non vada in lui ed è pronto a sfidare la corte marziale pur di portare avanti il suo desiderio e arrivare ad Okinawa per prestare soccorso a chi avrà bisogno.
Ad Okinawa come in Scozia, ma con un po’ di filosofia.
La battaglia che si tiene sull’isola di Okinawa, ha ricordato a molti Braveheart perché volta a rappresentare la guerra da un’aspetto più di necessità (non come gloriosa espressione di patriottismo e virilità), quanto per i suoi aspetti più cruenti che in molti film di guerra si tendono a oscurare o a minimizzare, mostrando corpi integri e sporcati di un po’ di terra e sangue. La battaglia di Hacksaw Ridge mostra al contrario quei cadaveri mutilati, a brandelli, deformati dalla violenza, creando un’impatto psicologico diverso, ma più realistico possibile: se vediamo un soldato parlare e pronto all’azione, vediamo anche come in un solo attimo la sua vita si spegne, senza possibilità di razionalizzare o di dire delle ultime parole, perché la realtà non è romantica. Oltre ad avere queste somiglianze concettuali con Braveheart, tra le due pellicole c’è anche una simile storia di produzione con tira e molla di Mel Gibson. Dopo che il produttore Bill Mechanic ebbe acquistato i diritti, chiese a Gibson si creare un connubio tra violenza e fede, proprio come aveva fatto con La passione di Cristo (2004), richiesta che probabilmente non piacque a Gibson che lasciò il progetto, per poi riprenderlo solo anni dopo.
Forse riprendere il lavoro dopo tanto tempo ha fatto bene alla regia e agli aspetti peculiari che emergono dalla pellicola e che si trovano sul campo di battaglia, dove la guerra diventa spunto filosofico. I soldati americani sono caricati dalla convinzione di combattere contro dei demoni (i giapponesi), quindi sembra ci sia una sorta di patriottismo esasperato, ma seppur non conoscendo il punto di vista giapponese, Gibson ci offre piccoli spazi per ricordarci che nella guerra tutti sono umani e mostri allo stesso tempo, puntando quasi maggiormente il dito contro le forze della Marina, capaci di fare fuoco sui suoi stessi soldati per il fine superiore di abbattere un nemico che può difendersi solo con spada, moschetto e granate, a differenza del ricco arsenale americano. E la filosofia si ricava proprio da queste contraddizioni con la disturbante esplosione di violenza; nonostante la guerra sia sostanzialmente un’espressione di mostruosità, c’è un lato molto umano e bello che emerge sul campo di battaglia tra fuoco e paura: il cameratismo tra soldati, il desiderio di guardarsi le spalle, di essere insieme, di aiutarsi a vicenda, valori che non vengono traditi in alcun momento, quasi a manifestare con positività il trionfo dell’essere umano anche nella situazione in cui è costretto ad esprimere disumanità. Questo sentimento lo rappresenta particolarmente Desmond che non abbandona il campo di battaglia e con creatività cura più persone possibili, anche i giapponesi, diventando il simbolo che tenta di fermare l’emorragia della guerra, che non può evitare, ma stando sul campo può salvare delle vite di cui altri non si sarebbero curati. Forse c’è una sorta di buonismo ed idealismo troppo hollywoodiano, ma questa è la storia vera di Desmond Doss e il film si conclude proprio con ritagli di interviste ai protagonisti che confermano ciò che è narrato: lui è l’eroe che salvò ben 75 soldati di 100 destinati a morire sul campo di battaglia.
Liberi dal buonismo, ma non dal messaggio cristiano.
L’approccio di Mel Gibson con l’obiettivo è sempre molto empatico ed accattivante, ricco di contrasti visivi e tematici che alla fine riescono ad armonizzarsi e lasciano emergere il sentimento del regista, un sentimento spiccatamente cristiano che non scade nel buonismo o nel moralismo, è piuttosto un sentimento che vuole essere propositivo nella riflessione del suo spettatore, oltre ad offrire un intrattenimento fatto con gusto e perfezionismo che rendono scorrevoli 139 minuti di pellicola.
Rilevante è anche la performance di Andrew Garfield, che riesce ad esprimere bontà e gentilezza in ogni espressione e gesto, dando un’idea convincente e rispettosa del soldato Doss, caratterizzato da sorrisi e da un’approccio ottimista verso ogni situazione e avversità, conquistando un’immediata simpatia nello spettatore e diventando un protagonista capace di trainare la narrazione grazie al suo carisma, senza essere un personaggio di ostentato patriottismo o icona virile.
Dopo dieci anni dal gioiello di Apocalypto, forse ci aspettavamo un film molto diverso da Mel Gibson, con una sceneggiatura originale ed un profondo lavoro di ricerca, ma la storia de La battaglia di Hacksaw Ridge meritava di essere raccontata e – forse – nelle mani di altri sarebbe stata banalizzata e sarebbe caduta nel peccato di un film estremamente patriottico, mentre – in questo caso – non vediamo sventolare neanche una bandiera a stelle e strisce, solo una bandiera bianca sporcata di sangue e fango.