[Questo articolo contiene spoiler su Shape of Water – La Forma dell’Acqua]
Se non per piccole minoranze, quest’anno gli Accademy Awards avevano due fronti di supporter: La Forma dell’Acqua e Tre Manifesti a Ebbing, Missouri.
Sono due film profondamente diversi e a noi sono piaciuti molto entrambi: fare un confronto tra i due non avrebbe molto senso, ma possiamo indagare sulle ragioni che hanno portato alla vittoria della fiaba firmata da Guillermo del Toro, al quale il nostro Marcello Banfi aveva dedicato un approfondimento in tempi non sospetti.
Probabilmente Tre Manifesti a Ebbing, Missouri era un film troppo impegnato e che già aveva conquistato sei premi ai Golden Globe, tra cui quello di Miglior film drammatico. Se una pellicola così profonda (e a suo modo cruda) avesse trionfato anche agli Oscar in uno scenario di decadenza e rivoluzione (chissà…) hollywoodiana, non avrebbe lasciato spazio ad un film in cui avevamo bisogno un po’ tutti di credere.
La Forma dell’Acqua è uno di quei film che sembra fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni e, usando una narrazione fantastica, ha raccontato tematiche importanti e fatto riflettere. Non a caso Guillermo del Toro ha augurato ai giovani registi di credere nei loro sogni e usarli per raccontare la realtà.
Per chi ha seguito il lavoro cinematografico di Guillermo del Toro in questi anni, La Forma dell’Acqua risulterà un lavoro coerente ai suoi film precedenti, continuazione ed approfondimento di un discorso che si concentra su più tematiche cercando di unirle prima e snellendole poi con una sapiente scrittura, creando una formula (o forma?) vincente che supera i suoi precedenti film.
Stavolta non c’è un solo reietto protagonista, il periodo storico non è solo di sfondo e la fiaba è per adulti, con un mostro che la protagonista ama come donna, e non in senso platonico. L’eros entra nel tessuto narrativo di un film dove predominante è la malinconia, creata dalla colonna sonora di Alexandre Desplat e dai colori freddi della fotografia incantevole di Dan Laustsen che vede protagonista il blu – non solo dell’acqua – quasi a richiamare il messaggio della splendida graphic novel Il blu è un colore caldo; ma ricreando di fatto il clima della Guerra Fredda.
Il film è un chiaro invito ad andare oltre alle apparenze, oltre quei colori freddi, lì dove c’è una naturale paura di ciò che è ignoto, estraneo, diverso. Del Toro non fa promesse illusorie, ma invita ad andare oltre la dicotomia di bello&buono e brutto&cattivo, perché le fiabe di quando eravamo bambini mentivano: dobbiamo credere nella fiaba adulta, perché è trasfigurazione della realtà, e se l’accettiamo possiamo vivere con i piedi in due mondi.
Tutte le fiabe iniziano con C’era una volta… perché il contesto storico non è mai importante, devono essere senza tempo per poter esser attuali. Del Toro dà una precisa connotazione storica (e geografica) al suo film, come la nostra Lucia Tedesco fa notare nella sua recensione del film, ma portando anche a un’altra verità:
“La forma dell’America che viene colta all’interno del film è quella di un Paese che insegue il futurismo, denso di ottimismo e di promesse, che parallelamente convive con il sessismo e il razzismo […] Piccoli dettagli che mostrano che la pellicola non appartiene ad un tempo specifico, nonostante sia ambientato nel 1962: la sua è una temporalità simbolica, poiché tutto l’odio e la discriminazione che sconfina dai volti degli accusatori non hanno tempo.”
Collocare un film in un’ambientazione molto specifica e farlo appartenere al Regno del Mondo, poco incantato e molto realistico; questo è l’inizio della formula di un film da Oscar, il quale non può essere un film d’autore se nella sua firma ha solo tecnica e contenuti “alla Del Toro”. La Forma dell’Acqua ha anche un altro peso storico, una ricerca che ha le sue radici nel classico del cinema horror Il Mostro della Laguna Nera di Jack Arnold (1954) che ritornò nei cinema nel 1975 (e poi negli anni Ottanta in VHS), in piena Guerra Fredda. Nel classico (che ebbe due sequel) di Arnold il mostro, chiamato Gill-man, vive nell’ambiguità morale, creatura di un regno paradisiaco (la Laguna Nera, appunto) da cui nessuno è tornato per raccontarlo. Risulta difficile identificarlo come essere malvagio, è una creatura molto più simile a King Kong e – come lui – sessualmente attratto dalla ricercatrice Kay Lawrence (interpretata da Julie Adams) e la cui infatuazione lo porterà alla morte.
La Forma dell’Acqua non è certo un remake de Il Mostro della Laguna Nera, ma ha più che un debito storico verso la pellicola. Guillermo del Toro, che da piccolo sognava un finale felice per Gill-man e Kay, ha fatto un’operazione di decostruzione dell’opera attualizzandola, invertendo i ruoli del Mostro-Rapitore e della Damsell in distress, optando per un Monster in distress e un’eroina che rimanda alla Sirenetta di Hans Christian Andersen. Lei ha già le gambe, non ha voce e non è una femme fatale, ma questo non importa al suo Principe Azzurro perché è un mostro, un mostro verso il quale è lei a provare desiderio sessuale.
Spolverando i dizionari (o facendo una ricerca wikipediana) il sostantivo mostro ci ricorda la sua origine latina da monstrum (prodigio), dal tema di monere (avvisare), dunque nasce per identificare qualcosa di straordinario e non umano, con caratteristiche estranee all’ordinario, che induce stupore e paura. Un mostro è un ciclope, un drago, un unicorno, un’arpia… la valenza negativa è solo un prodotto storico dato a chi agiva contro il senso morale comune, che il cinema rappresentò con Peter Lorre in M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang, primo mostro cinematografico che diventa tale attraverso l’omicidio di nove bambine e che mai si spiegherà da dove ha origine la sua devianza. Lang cerca di portare la risposta alla follia e lasciando un’inquietante dubbio sulla natura del mostro-umano attraverso la confessione dello stesso: “quando cammino per le strade ho sempre la sensazione che qualcuno mi stia seguendo. Ma sono invece io che inseguo me stesso. Silenzioso, ma io lo sento. Sì, spesso ho l’impressione di correre dietro a me stesso. Allora, voglio scappare! Scappare! Ma non posso, non posso fuggire! […] Dopo mi trovo dinanzi ad un manifesto e leggo tutto quello che ho fatto. E leggo, leggo… io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? Chi può sapere come sono fatto dentro e cos’è che sento urlare nel mio cervello e come uccido? Non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi sento urlare una voce… e io non la posso sentire!”. Una tale profonda introspezione psicologica porta il meschino reietto a una sorta di empatia da parte dello spettatore: è un criminale, ma non vorrebbe esserlo e nessuno può aiutarlo, nessuno gli crede, per tutti merita la pena di morte. Ci troviamo davanti a un personaggio totalmente diverso da quello dal primo mostro vero e proprio della storia del cinema, Il Golem di Paul Wegener del 1915.
I mostri surreali o umani che siano, nel cinema conquistano spessore, simpatie, profondità psicologica e diventano strumenti di estrema critica sociale, da Kong a Godzilla, da Norman Bates a Hannibal Lecter. E tra loro troviamo altri mostri (cattivi? Meno cattivi? Incompresi forse) e in La Forma dell’Acqua anche c’è più di un mostro: uno è una creatura amazzonica (eroe e dio senza nome), l’altro è un essere umano.
Interpretato da Michael Shannon, il colonnello Richard Strickland è il vero mostro de La Forma dell’Acqua: sadico, violento, tortura e denigra, guidato da una rigorosa morale militare e cattolica. Il colonnello è un eroe, un vincitore, è bello, ha un’accogliente casa con una bella famiglia con tanto di figli, la fotografia è luminosa quanto si proietta nella sua realtà lontana dal posto di lavoro; ma è sul luogo di lavoro che mostra la sua vera natura, perfida, dove il contatto con la creatura marina fa emergere il mostro che è in lui, il contatto con la protagonista invece istiga i suoi desideri più perversi.
La protagonista, Elisa (la bravissima Sally Hawkins che ha avuto tante candidature, ma nessun premio), è investita del ruolo di eroina senza scelta. Come abbiamo già scritto non ci troviamo davanti alla femme fatale dai molteplici talenti, né davanti a un’icona di femminismo duro e puro. Elisa è una ragazza con un handicap, le sono state recise le corde vocali da bambina, e non ha molte prospettive future: è una donna delle pulizie all’interno di un laboratorio governativo, frequenta emarginati della società e nella sua vita sentimentale non ha nessuno. Le sue virtù sono mute, ha coraggio, determinazione ed empatia, ma non si esprimono, se non nel momento in cui l’amore la mette davanti alla scelta di agire per forza se non vuole vedere il suo amato morire. Una donna anonima, senza particolare fascino, diventa eroina e ci conquista con la sua “armata Brancaleone” formata da emarginati.
Ognuno dei protagonisti positivi di questa storia è incarnazione di un tema, di una minoranza, una marginalità che sembra lontana dalla forza e dalla possibilità di agire, di cambiare l’ordine delle cose; tutto sembra destinato a un finale triste e realistico in cui i leoni vincono e gli agnelli sono condannati.
Il vicino di casa di Elisa ed intimo amico, Giles (Richard Jenkins), è un artista sull’orlo del fallimento, anziano e gay; la collega di lavoro Zelda (Octavia Spencer) è una donna afroamericana intrappolata in un matrimonio di più bassi che alti; infine lo scienziato Hoffstetler (Michael Stuhlbarg) è in realtà una spia russa, un emigrato travestito da americano. Tutti loro sono innamorati di qualcuno/qualcosa che non li merita: un bel barista che si rivela omofobo, un marito maschilista e una scienza crudele. Questi amori li deludono, ma i nostri personaggi sono dei romantici, sognatori, ed ancora vogliono credere nell’amore che Elisa e la sua creatura incarnano, anche se questo rapporto ha le ore contate perché chi ama davvero deve lasciar libero il suo amore e Elisa combatte per questo.
La creatura conquista gli amici di Elisa, quel mostro lo definiscono bellissimo, fa venir voglia di impegnarsi e credere di aver la forza per ribaltare l’ordinario, perché è essa stessa straordinaria. In questa straordinarietà c’è tutto ciò che non è logico, matematico, materiale: incarna il sogno, la speranza, la ribellione, il desiderio di libertà e l’opportunità per guardarsi ed accettarsi, ed è proprio questo che la creatura premette a tutti loro di fare.
Come gli appassionati sanno, il fantasy è politico e La Forma dell’Acqua non fa eccezione.
Gli Academy Awards sono strani, ma negli ultimi anni sembra che abbiano favorito film più politici (senza dimenticare importanti eccezioni come Birdman o The Artist), incentivando – forse – la produzione di storie tratte dalla realtà o che narrano vicende realistiche, lasciando spazio al fantastico per lo più ai cine-comics. Questo non né un male né una critica, ma il cinema sta tendendo ad avere un’impronta sempre più realistica che talvolta sfocia in proto-documentari, lasciando davvero poco spazio a lavori metatestuali e/o descostruzionisti, si guarda poco al passato e a quel cinema classico che ha fatto la storia, tendendo per lo più a riprodurlo in remake senz’anima. Molti registi nel cinema contemporaneo sono sempre più tecnici, spesso incapaci di scrittura, poco artisti, e questo forse allarma e fa pensare che il cinema d’autore in America sia quasi morto.
Chi vi scrive pensa che Guillermo del Toro sia una magnifica eccezione, premiata proprio perché è un artista che ha realizzato una piccola opera d’arte, un labirinto allegorico, di citazioni e tematiche importanti che si intrecciano, ma non confondono.
In un mondo dove ci sono tensioni, il populismo prende potere e la violenza sembra sempre più intensificarsi, è importante raccontare la realtà, sì, ma non solo come dei reporter: c’è bisogno di trasfigurarla e dar modo alla fantasia di essere nutrita, di guardare al passato, di arricchire le sceneggiature e le scenografie delle lezioni di cinema che i grandi maestri hanno lasciato. Proprio questa potrebbe esser la risposta sul perché La Forma dell’Acqua ha vinto il premio Oscar come miglior film, o magari è solo una speranza, ma se lavori del genere possono ispirare nuovi registi a prendere sentieri di sperimentazione e ricerca, questa vittoria sarà anche motivo di arricchimento per il cinema del futuro.