Meditate che questo è stato:/ vi comando queste parole. […] O vi si sfaccia la casa,/ la malattia vi impedisca,/ i vostri nati torcano il viso da voi.
Questi versi introduttivi di Se questo è un uomo di Primo Levi manifestano tutta l’esigenza di ricordare, minacciano maledizioni a chi vorrebbe archiviare il passato per guardare avanti, ignorando che le radici del presente posano sul terreno del passato.
Non una minaccia vana, considerando che ancora oggi esistono presunti storici che negano l’Olocausto, ritenendo di avere le prove, che sia stata tutta una farsa di origine giudaica, provata dal silenzio degli ebrei alla liberazione dei lager, spiegazione umanamente semplice: dopo aver vissuto l’inferno per anni chi avrebbe l’entusiasmo di rivangare il dolore e l’orrore vissuto?
Il cinema è sempre stato probabilmente l’alleato più forte della storia in funzione di memoria: il cinema è infatti sempre stato aperto a tutti, da bambini ad anziani, uomini di cultura ed analfabeti, a partire dai cinegiornali fino ai documentari. Il cinema, grazie alle sue pellicole, è andato oltre la fantasia, oltre al raccogliere testimonianze ha potuto mostrare cosa accadeva realmente in quei campi, grazie ai nastri girati dagli stessi ufficiali nazisti e da chi per primo arrivò nei lager. Guardando quei filmati risulta comprensibile il desiderio di non rivangare su quei ricordi, ma la storia aveva bisogno di dare una voce ed un senso alla morte di oltre 17.000.000 di persone.
C’era bisogno di quelle testimonianze, di quelle immagini, di lasciare intatti quei campi di morte, affinché l’umanità ricordasse di quel lucido progetto di igiene razziale; non si poteva chiamare “follia”, perché la malattia mentale può appartenere ad una persona, ma l’idea di un tal pazzo non può concretizzarsi con simili risultati: chiamare follia un progetto ben studiato equivale a giustificarlo e a non coglierne l’orrore. Il cinema comprese – forse per primo – che non si trattava di follia e per questo chi si è messo dietro la macchina da presa per denunciare e attivare la memoria, ha attinto le sue conoscenze dalle storie di grandi e piccoli eroi, libri fiction non esattamente fantastici, testimonianze di sopravvissuti, documenti storici e consulenze dei massimi esperti sull’argomento. Un film che tratta di Olocausto ha una grandissima responsabilità, per cui non c’è mai superficialità da parte di chi vi lavora, motivo per cui non esistono film “sbagliati”, film da sconsigliare o film migliori.
Il proprio gusto porta inevitabilmente ad avere delle preferenze ma, in funzione di memoria, può esistere un film che va escluso o che risulti più importante di un altro? Noi non crediamo sia possibile, qualsiasi film in tema ha bisogno di esser conosciuto e visto, quindi i film che abbiamo deciso di riportare non crediamo siano i migliori nel trattare l’argomento, né crediamo che meritino più di altri di esser visti. Non è una classifica, ma un invito a vedere, rivedere e far vedere film che – da una lunghissima lista – abbiamo scelto come preferiti in funzione della memoria.
Forse le nostre scelte si possono etichettare come “scontate”, ma può un film con un alto messaggio morale essere davvero scontato? E siamo sicuri che le storie raccontate siano così scontate?
Purtroppo quando i quotidiani ci parlano di nuovi muri che si costruiscono, di leader che trovano capi espiatori in chi non ha il loro colore, di diversi da guardare con diffidenza per religione, orientamento sessuale ed identità, allora anche scelte “scontate” hanno bisogno di ricordare di non far cadere il presente negli errori del passato.
Schindler’s list (Steven Spielberg)
Inizialmente a dover trasporre l’omonimo romanzo di Thomas Keneally (liberamente ispirato alla vera storia di Oskar Schindler) dovevano esser registi quali Roman Polanski, Billy Wilder e Martin Scorsese, nomi forse più “adatti” a questo tipo di film, ma alla fine fu scelto Steven Spielberg che creò qualcosa di monumentalmente hollywoodiano con intenzioni neorealiste e il cui risultato furono 7 Academy Awards tra i quali Miglior Film e Miglior Regia.
Dopo che una flebile e calda luce di candela si spegne, si spengono tutti gli altri colori e si entra in un incubo in bianco è nero che vede protagonista Oskar Schindler (Liam Neeson), un personaggio che non voleva e non doveva essere un eroe. Raggiunge Cracovia sperando di allacciare rapporti con i gerarchi nazisti al fine di ottenere favori, compra da loro degli ebrei e pensa di speculare sulle loro vite, non si differenzia dunque dai nazisti stessi che – storicamente parlando – erano molto più allineati ai modi di Schindler che a quelli dell’ufficiale delle SS Amon Göth (Ralph Fiennes). Eppure quando Schindler assiste al massacro nel ghetto di Cracovia e ne vede portati via a migliaia, qualcosa cambia in questo personaggio di bassa moralità, il suo sguardo segue una bambina dal cappottino rosso (una delle scene più famose nella storia del cinema). Non trovando un senso a tutta quella crudeltà sente il dovere di far qualcosa, di aiutare non solo chi lavora per la sua Deutsche Emaillewarenfabrik, ma più persone possibili. Schindler alla fine salverà migliaia di persone, ma non saranno per lui abbastanza.
“Chi salva una vita salva il mondo intero” le parole del Talmud, incise sull’anello regalato dagli operai della fabbrica a Schindler, sintetizzano il senso del film e la redenzione di Schindler, ma da qualche parte tra i corpi di migliaia di vittime, ritroviamo quel cappottino rosso che segna la tragedia della morte di non solo un’innocente, ma milioni.
Nel finale il bianco e nero si fa da parte per tornare al colore e alla vita, il giorno in cui finisce l’incubo di una notte infinita e che sarà – e dovrà essere – ricordata per sempre.
Il Pianista (Roman Polanski)
Roman Polanski non si sentì pronto a dirigere Schindler’s list quasi dieci anni prima, perché quello che accadde a Cracovia lui lo visse in prima persona, era in quel ghetto e i suoi genitori furono deportati per Auschwitz (dove sua madre morì) e Mauthausen (al quale il padre sopravvisse). Suo padre lo salvò pagando lautamente una famiglia cristiana, ma gli orrori della Seconda Guerra Mondiale sono rimasti in lui e per questo decise di lavorare a una storia geograficamente più lontana (ambientata a Varsavia) basata su l’autobiografia del pianista Władysław Szpilman.
Nel 2003 Il Pianista trionfa ai BAFTA e agli Academy Awards con tre statuette (Miglior Regia, Miglior Attore Protagonista e Miglior Sceneggiatura Non Originale). Il film spinge su contrasti molto forti, come la violenza e i suoi postumi, la musica e il silenzio, creando scene e drammi che sembrano spingere verso il delirio e che solo qualcosa di etereo come la musica salva.
L’inizio della guerra arriva senza avvertimenti nel film: Władysław (Adrien Brody) lavora come pianista per la radio e sta suonando quando l’edificio viene bombardato, ma lui non cessa di suonare fino a quando una bomba fa crollare la stanza adiacente e la guerra, con le leggi razziali, sono così destinate a soffocare ogni libertà e creatività. Inizialmente le ingiustizie si manifestano nel licenziamento di Władysław dalla radio, poi nel suo confinamento nel ghetto di Varsavia e infine nella vendita del suo pianoforte. Nel ghetto assistiamo alla crudeltà del nazismo che iniziano con l’uccisione di un bambino e un vecchio sulla sedia a rotelle gettato da un palazzo, per poi espandersi a macchia d’olio, segnando la vita di tanti, molti, troppi personaggi legati a Władysław che – in qualche modo – riesce sempre a sopravvivere a tutte le situazioni difficili in cui si troverà, più grazie all’aiuto degli altri che alle sue azioni. Resterà totalmente solo nel ghetto di Varsavia distrutto, un superstite che sembra per lo più un morto vivente; non è rimasto più nulla e nessuno, sembra anche lui prossimo alla morte, incapace anche di aprire un barattolo di cetrioli. Sarà un ufficiale tedesco a trovarlo e salvarlo: scoprendo che è un pianista, lo porta in una stanza con un pianoforte e lo fa suonare lasciandosi incantare dal suo straordinario talento. Władysław non solo ritrova la sua anima e ciò che ha sempre realmente amato, ma trova anche un uomo che si prende cura di lui e lo tiene nascosto, fino a che l’invasione russa non fa fuggire via i tedeschi e l’ufficiale si congeda da lui senza dirgli il suo nome, un particolare che avrebbe potuto salvargli la vita nel campo di prigionia dove verrà deportato.
Władysław alla fine sopravvive alla guerra, ritorna a lavorare anche per la radio e solo alla fine scopre il nome dell’ufficiale tedesco che gli ha salvato la vita: Wilm Hosenfeld. Hosenfeld è un nome che questa storia (prima grazie al libro, poi al film) ha salvato dall’infamia, in quanto fu deportato insieme a tutto il suo reggimento e condannato per crimini di guerra, probabilmente morto sotto tortura. Hosenfeld non salvò solo Władysław, si sono fatte indagini storiche grazie alla testimonianza di Szpilman e si ritrovò il suo diario che testimoniò l’importante e coraggioso impegno umanitario con cui salvò numerose vite agli ebrei di tutta la Polonia.
La Vita è Bella (Roberto Benigni)
Guido Orefice (Roberto Benigni) è un ebreo italiano che, trasferitosi ad Arezzo, un giorno incontra Dora (Nicoletta Braschi), un’insegnante, e se ne innamora. Lei si fidanza però con un burocrate fascista per volontà della madre, ma non è felice e solo dopo numerose – e comiche – vicende Guido e Dora confesseranno i rispettivi sentimenti. Anni dopo la coppia è felicemente sposata, nonostante le leggi razziali siano attive sul territorio italiano, la loro famiglia si è arricchita di un figlio, Giosuè, che nel giorno del suo compleanno viene deportato in un lager con il padre e lo zio, seguiti poi dalla madre che andrà nel lager per scelta. Una volta arrivati lì Guido, per non far vivere in modo terribile l’esperienza, camufferà la detenzione per un gioco a punti nel quale il primo classificato vincerà un carrarmato vero, un gioco che Giosuè prenderà con entusiasmo, nonostante i tanti momenti difficili in cui vorrebbe rinunciare a giocare.
L’idea iniziale era quella di un film comico dal titolo Buongiorno Principessa, dal quale si può dedurre l’intenzione di lavorare a una commedia romantica sullo sfondo di un’Italia fascista. Il film però si trasformò in una storia sulla Shoah complice della testimonianza del superstite di Auschwitz Shlomo Venezia e dello storico Marcello Pezzetti.
Benigni commentò il suo lavoro così a film uscito: “La gente mi diceva di fare attenzione perché era un’idea molto estrema, temevo di offendere la sensibilità dei sopravvissuti. Lo so che tragedia sia stata, e sono orgoglioso di aver dato il mio contributo sull’Olocausto e sulla memoria di questo terrificante periodo della nostra storia. Io non sono ebreo, ma la storia appartiene a tutti“ e nonostante ci sia modo di divertirsi e ridere, la tragedia non è affatto minimizzata, è realistica, ma ha avuto il coraggio di far satira sul fascismo e sulle leggi razziali, quanto di trasformare in gioco l’intera detenzione e mascherare il vissuto del lager.
Il film ha partecipato a ben 53 concorsi, ricavando da ognuno un qualche riconoscimento (i maggiori a Benigni); in particolare nel Marzo 1999 si ritrovò con 7 nomination alla serata degli Oscar, e portò a casa l’agognata statuetta per le categorie Miglior Film Straniero (ma era stato anche eccezionalmente nominato nella categoria principale, come Miglior Film), Miglior Attore Protagonista (Benigni soffiò l’Oscar a Tom Hanks, Ian McKellen, Edward Norton e Nick Nolte) e Miglior Colonna Sonora (a Nicola Piovani). Forse gli Accademy Awards non saranno un premio qualitativamente importante, ma una vittoria ad un simile concorso rappresenta sempre un grande onore e un successo per qualcosa di più importante a livello umano.
La scelta di Sophie (Alan J. Pakula)
Dal 2007 l’American Film Institute ha inserito questo film come uno dei 100 migliori film americani, un orgoglio nazionale per questa trasposizione dall’omonimo romanzo di William Styron.
La storia è ambientata a Brooklyn, dove il giovane Stingo (Peter MacNicol) si trasferisce in cerca di ispirazione per scrivere un libro di stampo autobiografico. Nel condominio fa la conoscenza della singolare coppia formata dall’eccentrico ebreo Nathan (Kevin Kline) e dall’immigrata polacca Sophie (Meryl Streep). Stingo si ritaglia un posto importante nelle loro vite, diventa il terzo inseparabile elemento, sono quasi una famiglia e il giovane ama genuinamente la coppia, nonostante molte volte Nathan sappia essere inquietante e paranoico con i suoi eccessi d’ira che sfoga contro Sophie. Lei però non smette mai d’amarlo, sempre grata per averla salvata e curata da una brutta anemia ai tempi in cui arrivò negli Stati Uniti dalla Polonia, dove era stata deportata in un campo di concentramento anche se non ebrea. La sua storia affascina Stingo che vorrebbe sapere di più di lei, della sua famiglia e del suo passato, si innamora di lei, nonostante sia più grande di lui e prossima al matrimonio con Nathan. Sophie è un personaggio di incredibile fascino, anche grazie alle sue contraddizioni caratteriali: forte ma fragile, fortunata ma sfortunata, amata e non amata, felice e depressa, onesta ma bugiarda. Stingo la idealizza, anche se conscio di non riuscire a comprenderla, vorrebbe per lo meno che si aprisse a lui. Sarà invece il frutto del caso a rivelargli il passato di Sophie che non coincide con quanto raccontato: il padre che tanto venerava non era un professore che sosteneva i diritti degli ebrei, ma faceva parte di coloro che supportavano il programma d’igiene razziale e un suo allievo aveva sposato Sophie. Veniamo così a conoscenza dei buoni motivi per mentire, soprattutto legati alla sua malata relazione con Nathan, ma nel campo di concentramento vi è stata e vi ha sofferto, ha tentato di sopravvivere, ma perso tutte le persone che amava, in particolare i figli che si riveleranno la chiave d’interpretazione fondamentale per comprendere le sue scelte e la sua storia. Pochi flashback passati all’interno del lager offrono modo per comprendere il suo personaggio e quanto non solo un’intera esperienza segni le persone, ma anche solo determinate scelte.
Meryl Streep – con credibile accento polacco – ha emozionato nella sua straordinaria performance che le è valsa il premio Oscar come Miglior Attrice Protagonista, il secondo della sua lunga e fruttuosa carriera; un premio dovuto in quanto l’intero film si regge sulla personalità di Sophie, la quale diventa testimonianza vivente di come l’Olocausto sia stato – per le sue vittime – un incubo che non ha liberato nessuno, un dramma che non ha risparmiato chi è uscito dal lager ed ha mietuto vittime anche in tempi lontani dalla sua attualità.
The Reader – A Voce Alta (Stephen Daldry)
Nel 1958 lo studente quindicenne Michael Berg (David Kross), tornando da scuola, ha un malore e viene soccorso dall’attraente trentaseienne Hanna Schmitz (Kate Winslet) con la quale instaurerà una relazione. Nei loro incontri parlano poco di se, ma hanno un rituale voluto da Hanna: che Michael le legga un libro prima di avere un rapporto sessuale. La storia finirà quando lei – controllore sulle linee tramviare – viene promossa ad un lavoro d’ufficio dal quale rifugge.
Nel 1966 Michael studia giurisprudenza e frequenta un corso di specializzazione che segue un processo dove sono imputate sei donne, ex guardie dei lager, accusate per l’omicidio di oltre trecento donne ebree. Le vittime furono chiuse in una chiesa durante un’operazione di spostamento, dove – a causa di un bombardamento – morirono bruciate perché senza vie di fuga e nessuno accorso a liberarle. Michael riconosce con stupore Hanna tra le imputate, la quale viene accusata dalle altre di esser l’unica responsabile dell’accaduto e lei non lo nega: c’è un rapporto scritto su quanto accaduto che apporta la sua firma. Michael è incredulo, confuso, ma improvvisamente il passato trova un senso: Hanna è analfabeta e non può aver scritto quel rapporto, tuttavia – condizionata da rigidi schemi mentali – ripete, incapace di capire la sua posizione, che lei ha solo eseguito un ordine. Hanna finirà in carcere e lì, grazie a letture registrare di Michael (Ralph Fiennes da adulto), si procurerà i testi necessari per imparare a leggere.
La storia di The Reader, tratta dal romanzo di Bernhard Schlink, ha diviso la critica non per la qualità del film, ma per un messaggio considerato ambiguo e apologeta, in quanto Hanna è a suo modo una vittima. La performance straordinaria di Kate Winslet (vincitrice dell’Academy Award come Miglior Attrice Protagonista) fa provare affetto per questo personaggio, nonostante sia la responsabile della morte di oltre 300 persone, capace di chiedere alle detenute ebree di leggere ad alta voce per lei per poi farle entrare nelle camere a gas. Hanna è davvero l’incarnazione di un demone? La storia del film tende a spostare il male su l’analfabetismo, fanale d’allarme di una profonda ignoranza non solo culturale, ma anche umana. Hanna non è un personaggio malevolo o fanatico, Hanna ha una serie di mancanze che la rendono quasi aliena alla realtà, incapace di comprendere la relazione tra l’eseguire un ordine e la sua conseguenza; Hanna è incapace di empatia verso il prossimo, incapace di difendersi dalle accuse delle altre imputate, eppure ama i libri, le loro storie, e sembra che aneli alla bellezza chiusa tra le loro pagine; Hanna non crede nella supremazia della razza ariana, non si sente superiore a nessuno e – anzi – prova profonda vergogna per il suo analfabetismo.
Del buonismo e del melodramma hollywoodiano sono presenti, ma è da ritenersi difficile parlare di una storia d’apologia quando è ben definita una condanna e un’ammissione di colpa, la differenza da altre storie sta nel fatto che The Reader offre una riflessione alternativa su aspetti più oscuri che animano, sorreggono e aiutano schieramenti politici populisti e nazionalistici spesso manipolatori, a loro volta, di chi non ha cultura.
Quando Hanna imparerà a leggere, prossima alla sua scarcerazione, sembrerà aver compreso qualcosa di importante dalle sue letture che – forse – potrebbero dare un senso al tragico epilogo che libera la storia narrata dall’accusa di superficialità.
La Caduta – Gli ultimi giorni di Hitler (Oliver Hirschbiegel)
La famiglia della giovane Traudl Junge (Alexandra Maria Laura) l’aveva avvisata: doveva tenersi lontana dal nazionalsocialismo e nelle ultime ore del Terzo Reich sarà lei stessa a capirlo e a pentirsi di questa sua ingenuità mentre – in veste di segretaria – trascrive e dunque narra la fine dei gerarchi nazisti e di Adolf Hitler (Bruno Ganz). Il diario di Junge (Fino all’ultima ora) assieme allo storico Joachim Fest (autore de La disfatta) diventano le fonti preziose che animano e costruiscono questo film, spogliato di leggende urbane e di eventi romanzati, crudo e sincero, ma anche umano per ricordare la lucidità che ci fu nel sogno della nuova nazione germanica.
Ci troviamo a dover parlare di un film che non tratta della Shoah, la questione ebraica è totalmente lontana e dimenticata dai suoi autori e forse, proprio per questo – paradossalmente – Der Untergang (il titolo originale) diventa un film di straordinaria importanza per la Memoria, perché la macchina da presa è puntata proprio sui volti dei mandanti della morte di 17.000.000 di persone che qui vediamo in piccoli momenti di quotidianità (Hitler che è cortese con le ragazze, a tavola che mangia, mentre incontra i bambini…), nell’atto del tradimento (Himmler) e nell’ostentata fedeltà (Speer) che qualcuno spinge a gesti estremi (il suicidio di Goebbles e la sua famiglia), tutto mentre l’Armata Rossa è alle porte di Berlino e che nessuna strategia militare potrà contrastare. E cosa ne è dei loro sentimenti per la Germania?
Nel testamento di Hitler (nel film riportato) è dichiarato che qualsiasi azione, lavoro e sforzo era finalizzato al benessere della Germania (e così anche il genocidio), ma sarà lo stesso Hitler a tradire i suoi sentimenti con le parole, forse, più significative della pellicola: “se perderemo la guerra avrà poca importanza che scompaia anche il popolo tedesco. Nel momento attuale non ha senso farsi scrupolo di non distruggere quello che serve ad assicurare la sopravvivenza alla popolazione civile; al contrario è giusto che noi stessi distruggiamo tutto. Questo popolo si è dimostrato un popolo debole ed è una precisa legge di natura che tutte le creature più deboli siano destinate a scomparire […] Quelli che sopravviveranno a questa guerra saranno gli individui peggiori, poiché i migliori sono già tutti caduti” e questo suo ripudio per la Germania stessa e la vergogna per i suoi generali, porterà gli stessi a non comprendere e scontrarsi con quello che era stato il loro venerato cancelliere.
Dietro un punto di rottura così netto e scioccante, valorizzato dall’altissima performance di Bruno Ganz, riusciamo forse a cogliere l’apice dell’orrore della Shoah, quanto la difficoltà che ha portato a interiorizzare questo pezzo di storia che lo stesso film – nella sua esistenza – lo dimostra, essendo la prima grande produzione tedesca sul nazismo. E risale al 2004.
The Lady in number 6 (Malcolm Clarke)
Dopo aver toccato le corde emotive con storie di vittime, carnefici, eroi, ispirate a una storia vera o di finzione, ho pensato di chiudere l’articolo con un breve documentario di straordinaria bellezza: The Lady in number 6 di Malcom Clarke.
In questa intervista di 39 minuti incontriamo quella che è stata la pianista e la superstite della Shoah più anziana del mondo: Alice Herz-Sommer, deceduta una settimana prima che il suo documentario vincesse l’Accademy Awards come Miglior Corto Documentario, all’età di 110 anni. Alice era un’ebrea benestante di Praga, innamoratasi a 12 anni del pianoforte che all’invasione tedesca della Cecoslovacchia (1938) non scappò verso la Palestina come parenti ed amici, ma rimase a Praga con suo marito (Leopold Sommer) per star vicina alla madre malata.
Alice, Leopold e il loro unico figlio vennero deportati nel lager di Theresienstadt nel 1943 e da lì le loro strade si divisero per sempre, lei fu usata – insieme ad altri intellettuali ebrei – come strumento di propaganda per far credere al mondo che il nazionalsocialismo avesse riguardo per loro. Alla liberazione Alice apprese che Leopold era morto a Dachau, quindi tornò sola con suo figlio a Praga, per trasferirsi poi a Gerusalemme ed infine a Londra, dove ha condotto una vita atletica, felice e suonando per ore ed ore il pianoforte ogni giorno.
Quello che è straordinario di questo documentario è la positività di Alice verso la vita, la capacità di essere grata di ogni cosa, di riuscir a dichiarare di amare ogni persona ed ogni aspetto della vita, venerando come una divinità la musica perché – come ogni forma d’arte – è in grado di salvare le persone, in grado di salvare l’intera umanità, come è stato per lei. La sua purezza, la sua passione per la vita, hanno reso questo documentario del 2013 di grande energia ed ispirazione e, per questo, merita di esser ricercato e visto.
Alice dichiarò di aver fede nell’umanità nonostante quello che aveva vissuto e, conscia che la sua vita stava arrivando al capolinea, tramite questo documentario ci ha lasciato un testamento umano di ineguagliabile bellezza e saggezza: “ho vissuto molto guerre e perso ogni cosa molte volte, incluso mio marito, mia madre e il mio amato figlio. Eppure, la vita è bella, ho così tanto da imparare e di cui godere. Non ho spazio o tempo per il pessimismo e l’odio. La vita è bella, l’amore è bello, la natura e la musica sono belle. Ogni cosa di cui abbiamo esperienza è un dono, un regalo che dovremmo apprezzare e trasmettere ai nostri cari”.
Noi, nel nostro piccolo, speriamo almeno di guidarvi per belle esperienze cinematografiche.