Tra le dieci pellicole ancora in corsa per l’Oscar al Miglior film straniero 2020 a rappresentare la Russia c’è La ragazza d’autunno, secondo lungometraggio del giovane regista Kantemir Balagov. Il ventottenne di Nalchick firma un’opera intensa, accurata e inconsueta, che gli ha fruttato il premio Miglior Regia al Festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard. Il film uscirà nelle sale italiane il 9 gennaio.
1945: reduci a Leningrado
Sono finiti i giorni dello spietato assedio della città perpetrato dai tedeschi, ma le conseguenze della guerra e dei quasi tre anni di fame sono ancora palpabili nella città, nelle menti e nei corpi dilaniati dei sopravvissuti. E qui, tra il marasma di un’umanità varia accumunata dallo stesso destino, il racconto si stringe intorno alle vite di Iya e Masha. Ragazze del fronte, congedate e tornate in città per lavorare come infermiere, le due protagoniste interpretate dalle bravissime Viktoria Miroshnichenko e Vasilisa Perelygina cercano di trovare un senso alle proprie esistenze. Il loro rapporto, le loro azioni, costituiscono il fulcro esclusivo della narrazione, in cui ogni altro personaggio si affaccia brevemente, rimanendo privo di alcun potere di influenza su di essa. Motori mobili dell’azione, le giovani donne fanno la microstoria che il regista ha scelto di raccontare tra l’immensità della distruzione.
La ragazza d’autunno, un intimo ritratto della storia
Scelta evidente anche da un punto di vista registico: Balagov non usa mai campi lunghi, mancano del tutto le riprese panoramiche, gli edifici compaiono fugacemente sullo sfondo e mai nella loro interezza. L’inquadratura immersa negli interni minuziosamente ricostruiti, che raramente si allontana dai volti, che si focalizza sui dettagli di corpi e ambienti, invadendone lo spazio e l’intimità, riesce a rendere fisicamente l’idea della selezione, tra lo sterminato materiale che il contesto storico offre, di questa vicenda così personale e tuttavia emblematica. La palette vivida e calda, in cui prevalgono il verde, l’ocra e il rosso, accentua la sensazione di avvolgimento e riesce a creare una vicinanza tra lo spettatore e il tempo passato delle foto in bianco e nero. Il contrasto tra il colore vivace e la drammaticità degli eventi rende la sapientemente allestita messa in quadro ancora più affascinante, un’autentica sequenza di dipinti. Il regista racconta dell’assedio senza raccontare l’assedio, facendoci percepire attraverso frasi, singoli episodi e soprattutto i comportamenti dei personaggi, che la guerra, la fame e le ferite sono ormai parti intrinseche degli uomini e delle donne che sono sopravvissuti e sono ancora in grado di determinarne le azioni.
Iya e Masha, resilienza e resistenza
Questa riuscitissima opera di scrittura si concretizza attraverso la caratterizzazione delle protagoniste. Iya, detta “spilungona”, è diafana e altissima, la sua fisicità spicca tanto tra il gruppo di donne nude ai bagni quanto tra gli ex soldati e trasmette in ogni momento il senso di inadeguatezza, la goffaggine, la sensazione di non saper cosa fare di sé. Masha al contrario è decisa e volitiva, e cerca di reagire al caos ricostruendo l’ordine che conosce, cercando un compagno e un figlio, pronta a fare tutto il necessario per sopravvivere. L’intensa relazione che le unisce è molto moderna e complessa, intreccia amore e dipendenza, ricatto e debito, in cui irrompono la morte e il desiderio di vita, fino alle estreme conseguenze. La ragazza d’autunno è una storia dura, di femminilità che si compie in funzione di se stessa, capace di autodeterminarsi, in cui alla virilità è attribuito un ruolo meramente strumentale e, molto saggiamente, non antagonista. Gli uomini restano semplicemente nelle retrovie, situazione insolita in una narrazione di guerra, e questo aspetto rende il film diverso nel suo genere, facendone una riflessione attuale sul ruolo delle donne nella società, fuori dai ben noti schemi conflittuali. Straordinarie e premiate al TFF le attrici protagoniste, complementari e perfettamente in parte.
La ragazza d’autunno è un’opera moderna, cruda, resa bella e commovente dalla fotografia di Ksenia Sereda e dalla sceneggiatura di Balagov e di Alexander Terekhov. Kantemir Balagov dà prova di grandi talento, coraggio e sensibilità, che sicuramente lo includono nel novero dei registi da tenere d’occhio nei prossimi anni, dimostrandosi conoscitore dei classici e capace di guardare al presente e al futuro con padronanza tecnica e del materiale narrato. Un film che poco probabilmente riscuoterà un grandissimo successo di pubblico ma che ha meritato ampiamente i riconoscimenti della critica.