Il sacerdote Giuseppe (Mimmo Borrelli), pastore a servizio di una piccola diocesi romana, chiede di essere trasferito in un comune della sua terra natia, nel napoletano, in seguito ad una crisi personal-spirituale.
Accolto e introdotto dal suo predecessore Don Antonio (un convincente Roberto Del Gaudio), uomo magnetico e stimato dalla comunità, stendardo della battaglia contro lo smaltimento illegale dei rifiuti tossici, Don Giuseppe riscuote ingenuo e testardo una pesante eredità che mostrerà solo in seguito le sue fraudolente radici, tra le proprie impreviste accezioni.
Ed ingenuo e testardo è pronto a scavare, al fine di sradicare il marciume omertoso di una comunità paralizzata dalla paura da ormai troppo tempo. Questo è L’equilibrio, il nuovo film di Vincenzo Marra.
Il regista dipinge un dramma impregnato dai contenuti sociali, dopo aver abdicato con garbo e saggezza l’idea del documentario, genere a lui molto caro. Marra decide dunque di dirigere la camera trasmutata in un novello Virgilio, pronta a scortare il protagonista attraverso il percorso insidioso che dissigilla la verità. L’utilizzo esclusivo del piano sequenza sottolinea il cammino dell’uomo, la macchina da presa pedina Giuseppe curiosa e solerte, per poi precederlo con sicura onniscienza.
L’incertezza della macchina a mano offre alla fiction forti rimandi documentaristici, coerente con gli ambienti e i costumi, sposata ad una fotografia senza vezzi.
I dialoghi altalenanti cedono a tratti alla persuasione della didascalia, per poi riprendersi grazie al fascino di quel dialetto campano tanto pittoresco, quanto tangibile. I personaggi non temono poi di tacere, al fine di cedere il posto ad una colonna sonora estremamente appropriata ed evocativa.
La storia priva di fronzoli si dipana dinnanzi al pubblico con naturalezza, non volta ad offrire imprevedibili colpi di scena, ma incline a svelare, inevitabile come la finzione, le conseguenze delle scelte etiche caratterizzanti un protagonista che agisce, ma che nell’azione rivela la propria impotenza. E nell’impotenza, non mai nel carisma, lo spettatore sospende l’incredulità, per lasciar spazio all’identificazione con questo coraggioso dilettante, con questo fallito eroe.
E c’è da chiedersi quanto sia schietta quest’identificazione, con l’uomo assalito da dilemmi morali, ma pregno del cieco coraggio reazionario. È forse integra nella scelta obbligata posta dalla dicotomia tra la purezza del protagonista e la sua machiavellica controparte rappresentata da Don Antonio, vile “sostenitore dell’equilibrio”. Certo è onorevole quando si pensa al sacrificio virtuale in favore dell’innocenza infantile. Ma il dubbio s’incunea nei vuoti d’ipocrisia e sgorga la consapevolezza della rarità del fascino di Alain Delon e del fegato di Don Giuseppe.