L’ultima creatura di Damien Chazelle è il film di cui tutti parlano. La La Land ha sbancato il montepremi a qualsiasi festival sia stato presentato: si è aggiudicato sette Golden Globe su sette candidature, il Premio del Pubblico al Toronto International Film Festival, la Coppa Volpi per l’interpretazione di Emma Stone al Festival di Venezia e soprattutto la stratosferica cifra di quattordici candidature ai premi Oscar 2017, eguagliando il record di film come Eva contro Eva, Titanic e Il Ritorno del Re. La storia d’amore, ambizione e musica dell’aspirante attrice Mia (Emma Stone) e del giovane pianista con l’ossessione del jazz vecchio stile, Sebastian (Ryan Gosling), sembra aver incantato pubblico e critica di tutto il mondo con i colori sgargianti dei suoi piani americani dal sapore Hopperiano, le sue coreografie retrò costantemente inseguite dal carrello della macchina da presa e con le sue romanze, il cui processo di cultizzazione è già in fieri. Ma la popolarità ha un prezzo: spesso ciò che suscita un entusiasmo spontaneo e incontrollato nella maggioranza ha anche il potere di far scaturire una reazione uguale e contraria in un’altra compagine di pubblico (e di critica) abituata a guardare con sospetto e diffidenza i fenomeni di massa, soprattutto quando – cosa straordinaria per un film così quotato agli Academy Awards – non veicola messaggi sociali e politici.
La La Land è stato accusato di essere un film che propugna il complesso del salvatore bianco (il personaggio di Sebastian ha una visione ultraconservatrice e monomaniacale del jazz, genere musicale nato dall’esperienza culturale degli afroamericani, e si ritrova a confrontarsi con un collega nero, Keith – John Legend – il quale invece ha una prospettiva assai più aperta all’evoluzione del gusto del pubblico). Un’ulteriore critica mossa alla pellicola è stata quella di mettere in scena il cosiddetto mansplaining, ossia un atteggiamento di paternalistica superiorità da parte di un personaggio maschile nei confronti di un personaggio femminile: Mia, infatti, non ama il jazz, e Sebastian tenta di convincerla che la cosa sia dovuta al fatto che non ha mai vissuto l’esperienza di un vero jazz club con tutti i crismi della tradizione. Infine, il film sarebbe sottilmente sessista in quanto il personaggio di Mia sembrerebbe meno profondo e consistente di quello di Sebastian.
Tralasciando la fondatezza o meno di tali accuse che, a chi scrive, sanno di impietosa arrampicata sugli specchi, paranoia incontrollata e profonda carenza di capacità di contestualizzazione, appare evidente come una nutrita parte della critica mostri gravi difficoltà ad accettare che un film che non abbia per argomento tematiche sociali come la discriminazione razziale o sessuale e la disabilità, biografie di uomini famosi e grandi messaggi storici possa aver collezionato una simile caterva di nominations – e che in larghissima parte le abbia addirittura portate a casa! La La Land potrebbe invece spalancare le porte ad un vento nuovo che porterebbe una boccata di aria fresca nell’atmosfera viziata dal buonismo dell’Academy del Kodak Theatre: ecco perché.
Critica della pellicola pura: ritorno al film in sé
Negli ultimi anni si è percepita la netta sensazione che nel campo della Settima Arte si abbia avuto la pericolosa tendenza a considerare più l’oggetto dell’opera che l’opera stessa, soprattutto se questo si presenta come grandiosa monografia del riscatto sociale di un individuo o di una minoranza discriminata: un po’ come se dovessimo sentirci in dovere di apprezzare di più la Gioconda se essa raffigurasse una donna sfigurata. Questo ha generato un pericoloso circolo vizioso che ha coinvolto sia produttori e registi, ad uno dei fuochi dell’ellisse, che spettatori e critici all’altro, il quale ha condotto a valutare di più film con sceneggiature “impegnate” in un inconsapevole – o meno – automatismo. Le ultime edizioni dell’Academy Awards ne sono testimoni: i grandi vincitori sono quasi sempre attori, registi e titoli provenienti da biopics, drammi storici e magniloquenti megalografie di storie di lotte progressiste ed egualitarie. Significa che tra di essi non vi fossero opere meritevoli? No di certo. Significa che non abbiamo bisogno di sentire raccontare importanti vicende di grandi uomini rimasti nell’ombra, di conquiste sociali, di tragedie e di eroi della Storia? No di certo. Significa, piuttosto, che una pellicola deve essere giudicata innanzitutto come opera d’arte in quanto tale, secondo caratteristiche e criteri che appartengono solo all’Arte e non alla Morale e che, in base a ciò, anche un film che tratti di argomenti ben più leggeri possa essere ritenuto degno della Stagione dei Premi? Questo, invece, assolutamente sì. La La Land è l’esempio lampante di come la leggerezza, quel velo di particelle minutissime d’umori e sensazioni, pulviscolo d’atomi come tutto ciò che costituisce l’ultima sostanza della molteplicità delle cose, per citare Italo Calvino, possa danzare sulle scarpe da tip tap, incantare pubblico e critica con i suoi toni fiabeschi e divenire, infine, un valore artistico e nient’affatto un detraente. Una vicenda sentimentale delicatamente romantica che racconta la poesia dell’ordinario e che fa da raccordo agli altri due grandi temi del film: il sogno e la nostalgia.
Le quattro stagioni del Sogno: Fama, Fortuna e Destino ad Hollywood
La pellicola che, come anticipato, ha i toni leggeri e sognanti della fiaba, è scandita in quattro sequenze, che portano il nome delle quattro stagioni, le quali accompagnano e in un certo qual modo rappresentano le fasi non solo della storia d’amore tra Mia e Sebastian ma anche e soprattutto quelle dello sviluppo della loro consapevolezza e del contrarsi ed espandersi dei loro sogni ed ambizioni. L’involucro color caramella e carta da zucchero delle immagini e delle inquadrature, sgargiante come i vestiti di Mia, avvolge, tuttavia, un contenuto dolceamaro. Il talento di Sebastian non si rivela finché egli non decide di accantonare il suo orgoglio di purista del jazz e gli ideali musicali in cui si identifica; per avere successo, Mia deve passare sotto alle forche caudine del fallimento e lasciare il suo Paese e il suo amore. Alla fine, in una ringkomposition narrativa (e stagionale), quando i due si rincontrano hanno entrambi realizzato i loro sogni e desideri, ma ad un prezzo. La morale intrinseca è che qualsiasi obiettivo non è mai indolore, che diventare chi siamo nati per essere richiede quasi sempre un sacrificio importante e quel sacrificio può essere addirittura una parte di noi, come un ideale o un sentimento. Hollywood, luogo simbolo della rapacità della Fama e della Fortuna e delle vite sacrificate all’Ambizione diviene metafora della vita e teatro di una vicenda che racconta quella di ognuno di noi. Il finale à la Casablanca offre lo spunto di riflettere su un altro grande tema del film: la Nostalgia.
Operazione nostalgia
La La Land, lo abbiamo visto, è un film di Hollywood che parla di Hollywood, e per farlo non può non ricollegarsi al suo periodo aureo, quello dei film musicali nel ventennio centrale del secolo scorso, come le pellicole che videro protagonisti Fred Astaire e Ginger Rogers (la cui performance in Shall We Dance è peraltro citata da Gosling e dalla Stone nella deliziosa coreografia su Lovely Night) e il celeberrimo Singing in the rain con Gene Kelly e la compianta Debbie Reynolds. La tendenza citazionistica del film ha spalancato le porte ad un secondo filone di critica – meno contenutistico e più “stilistico” – che incolperebbe Chazelle di avere ecceduto con gli omaggi al passato della Città degli Angeli sostanzialmente per coprire l’inconsistenza della trama, infinocchiando lo spettatore. Altri hanno rincarato la dose sostenendo che le esecuzioni tanto coreografiche quanto canore dei due protagonisti sarebbero ben lontane dai tecnicismi virtuosistici e dalla perfezione dei loro modelli. Forse bisognerebbe chiedersi se la presunta imperizia dei due attori non sia, piuttosto, una precisa scelta stilistica: Mia e Sebastian si cercano e si trovano nella caotica e scintillante vita hollywoodiana perché entrambi vivono in un mondo di celluloide e vinile che non esiste più. La sfavillante yellow brick road che avrebbe condotto Mia al successo si rivela un rifiuto dietro l’altro; il tempio del jazz di Sebastian è diventato un tapas-bar; quando i due vanno a vedere Gioventù Bruciata la pellicola si incendia sul finale e il cinema che ospita la proiezione chiuderà di lì a poco. I due, soprattutto Sebastian, sono proiettati in una dimensione irreale ed utopica: ecco perché, quando la realtà bussa prepotentemente alla porta, la loro storia crolla come un castello di carte. Di qui anche la supposta “goffaggine” delle loro performances rispetto alla asettica perfezione che un attore e un ballerino di Broadway – come in Another Day of Sun – avrebbe potuto dare: sono una nota distonica e sofferta rispetto al mondo che va avanti, mentre i due rimangono aggrappati all’impossibilità dei loro sogni, irreali tanto quanto i nostri, quando ci illudiamo che la felicità non abbia un costo.