In questo momento di ripartenza per il cinema internazionale, piccole opere poco conosciute stanno trovando un grosso spazio. Tra i vari titoli spicca Little Joe, film partecipante allo scorso Festival di Cannes. La pellicola è scritta e diretta dall’austriaca Jessica Hausner ed è prodotta in Germania, Austria e Gran Bretagna. La regista è famosa per il film Lourdes, che nel 2009 stupì positivamente la mostra del cinema di Venezia e si aggiudicò diversi premi. Sarà riuscito Little Joe a far di meglio? Scopriamolo insieme nella nostra recensione.
Una trama a metà tra horror e film di fantascienza
Alice (Emily Beecham), una madre single, è una biologa fitogenetista in una società chiamata Planthouse, dedita allo sviluppo di nuove specie vegetali. Insieme allo staff ha creato un fiore molto speciale e notevole non solo per la sua bellezza ma anche per il suo valore terapeutico. La pianta infatti, se viene nutrita in maniera corretta, le si parla regolarmente e si mantiene alla temperatura ideale, ha il potere di rendere felice il proprietario. Visto la separazione che sta affrontando dal marito, Alice decide di portare a casa un esemplare andando contro le regole aziendali e lo regala al figlio adolescente Joe (Kit Connor). La pianta viene battezzata “Little Joe”. Poco alla volta la biologa si rende conto che l’umore del ragazzino muta in maniera inquietante assumendo atteggiamenti distaccati e sospetti. Alice comincia così a chiedersi se tutto questo è un modo di Joe per attirare la sua attenzione oppure se la pianta nasconde qualcosa.
Una regia da film da camera
Nel comporre il film la regista Jessica Hausner rinuncia a scenografie mastodontiche e ad una computer graphic all’avanguardia che sono tipiche di pellicole con argomenti apocalittici. L’austriaca infatti preferisce circoscrivere tutte le vicende in un unico spazio pubblico costituito dai laboratori dell’istituto di genetica in cui si svolgono le ricerche. Poche volte lascia il posto ad uno spazio più privato, se non per raccontare e approfondire il rapporto tra Alice e suo figlio Joe. Tutto questo fa si che i protagonisti diventano elementi principali di un vero racconto da camera, in cui quello che succede in termini di azione è molto meno importante rispetto al resto. Esempio plateale è il netto taglio dello sfogo aggressivo di uno dei personaggi prima del verificarsi. La cosa fondamentale però è la mimica e le espressioni facciali di ogni protagonista del film, elementi che riescono decisamente a sostituire scene di azione.
L’amore di una madre
Fatto molto interessante di Little Joe è la rappresentazione del rapporto madre-figlio e le varie problematiche che ci potrebbero essere. Nelle fiabe e nei racconti, e anche nella vita, sentiamo che una madre e un figlio sono legati da un legame invisibile che li rende inseparabili. Nel migliore dei casi si tratta di un legame d’amore, ma è comunque un qualcosa che non può essere spezzato. Questa relazione è la base per l’indiscutibile responsabilità che una madre prova verso suo figlio. Tutte le madri che lavorano si sono sentite rivolgere la domanda, spesso carica di sottintesi accusatori: “Ma chi si prende cura di tuo figlio quando vai al lavoro?” Little Joe è la storia di una madre tormentata dal senso di colpa per il tempo che dedica al lavoro “trascurando” il proprio piccolo. Una madre dai sentimenti ambivalenti, perché la pianta che Alice crea è come una seconda figlia: è il suo lavoro, la sua creazione, il prodotto del suo impegno. E lei non vuole trascurare nemmeno questo secondo figlio o tanto meno perderlo. Quello che ne esce fuori però è un disastro completo. Alice non può e non riesce e star dietro ad entrambi e diventa vittima dei suoi stessi sensi di colpa. Il risultato è che sia Little Joe che Joe perdono fiducia nella propria madre e fanno ciò che vogliono. Insomma in questo film si vuole raccontare un rapporto tra madre e figlio molto distante dal modello classico spazzando via completamente la concezione di una maternità antiquata.
In conclusione
Ciò che però emerge più di tutto in Little Joe, è la straordinarietà dell’universo emozionale e visivo che la regista austriaca riesce a costruire. Ancora più che nel passato Hausner spinge oltre la radicalità del proprio sguardo e attraverso un controllo totale (quasi maniacale) degli elementi formali lascia emergere un senso di inquietudine perturbante che inquadratura dopo inquadratura porta il film a un grado di oggettività spietato, quasi sfiancante per lo spettatore. Rimane un peccato però una non concreta inquadratura del genere di questa pellicola.