Mank, l’ultimo film di David Fincher, è entrato nel catalogo Netflix solo il 4 dicembre, ma la platea di spettatori e critici ne ha già decretato il successo. Superfavorito alla prossima cerimonia degli Oscar, il film nasce da una sceneggiatura di Jack Fincher, padre del regista, venuto a mancare nel 2003. Al centro della narrazione un magnifico Gary Oldman interpreta Herman J. Mankiewicz, il geniale e sregolato sceneggiatore di una delle pietre miliari della storia del cinema moderno, Quarto Potere di Orson Welles.
Nell’atmosfera fumosa e depressa di una Hollywood martoriata dalla crisi economica eppure brulicante di incontri e possibilità, nasce quello che ancora oggi è da molti considerato il miglior film di tutti i tempi, lo sfolgorante successo cinematografico dell’enfant prodige Welles. Ma non è della genesi di Quarto Potere che si occupano i Fincher, che sfruttano la vicenda per una ben più ampia riflessione. Infatti fra le luci e – soprattutto – le ombre del jet set californiano composto di politici, giornalisti, magnati, produttori e attrici al giro di boa, emerge Mank, mal tollerata coscienza in un mondo di mercenari e affaristi. Un araldo che stringe una bottiglia di whisky, protagonista di una strana parabola che, oltre al fascino della vicenda umana, apre la strada a uno splendido spaccato socio-politico del decennio ’30 – ’40 per allungarsi sul presente e realizzare una critica raffinata e feroce al potere e a tutti coloro che in vari modi lo esercitano e lo servono.
Mank tra Welles e Fincher
Dal suo isolamento forzato con la dattilografa Rita (Lily Collins), Mank ci svela la sua storia attraverso i flashback che si inseriscono uno dopo l’altro nell’arco dei giorni di stesura di Quarto Potere, ricalcandone la struttura. Un doppio filo metacinematografico lega i due film, ma Jack Fincher si è spinto ancora più profondamente tra la storia e il mito, romanzando le vicende delle persone che hanno ispirato Mank nella vita reale e immaginando quale influsso abbiano avuto sullo sceneggiatore. Soprattutto è il caso del potente William Randolph Hearst (un impeccabile Charles Dance) e della sua amante, l’attrice Marion Davies, interpretata da Amanda Seyfried nella solita forma smagliante. Ma anche dello stesso Welles (Tom Burke), dipinto come un ambizioso artista senza scrupoli e riluttante a condividere i meriti con i propri brillanti collaboratori. Mank, la vera voce dell’arte e dell’idealismo, disamorato e autodistruttivo, trasforma in arte le vite altrui mentre fa a pezzi la propria. Neppure l’ultimo atto di orgoglio, la rivendicazione del proprio lavoro, e il Premio Oscar basteranno a salvarlo. Gary Oldman dà vita a un cinico, intelligente, donchisciottesco e contraddittorio personaggio, fagocitato dal proprio male di vivere, che potrebbe fruttare all’attore de L’ora più buia una seconda statuetta.
Una vecchia pellicola digitale
Mank è una pellicola dal sapore squisitamente retrò, dall’accuratissima messa in scena, alla regia, alla trainante colonna sonora. La narrazione episodica, non lineare, che intreccia in maniera anacrologica vari frammenti della vita del protagonista ricorda quella di Quarto Potere, ma questo omaggio al passato non fa che esaltare la modernità di quel cinema mai tramontato, a cui anche le opere odierne non possono fare a meno di guardare. Questo equilibrio tra presente e passato caratterizza vari aspetti del film, primo fra tutti quello contenutistico. La narrazione ci conduce oltre il sogno hollywoodiano fino alla menzogna hollywoodiana. Le bugie, essenziali per alimentare la fabbrica dei sogni più grande del mondo, vengono svelate dallo sguardo disilluso di Mank, dall’arguta ironia con cui discosta le cortine di stelle che ammantano operai sottopagati, oscuri legami con la politica, la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso il cinema e le fake news. Un affronto che lo star system che sta nascendo dalle ceneri della crisi non gli perdonerà.
Attraverso una significativa selezione di ricordi, maschere e personaggi a tratti caricaturali, ciascuno contraddistinto di particolari vizi e virtù ma accumunato dal desiderio di restare a servirsi del mondo dorato che abita, Fincher approda ai nostri giorni con malinconico romanticismo, implicitamente, senza tradire la cifra stilistica che caratterizza il film. E lo fa servendosi del materiale storico come di una mitologia, riflettendo su un’industria in forte crisi di identità, in cui gli studios impongono la linea creativa e incoraggiano la produzione di opere facilmente fruibili. Netflix vince, come con The Irishman di Scorsese, distribuendo un prodotto orgogliosamente complesso e splendidamente realizzato.