L’edizione primaverile di Romics 2018 non ha dato grande spazio al cinema, ma la sola presenza di Martin Freeman per il Romics d’Oro, ha portato qualità nella fiera romana dedicata al mondo nerd.
Esattamente come accade nelle grandi fiere d’oltralpe e d’oltreoceano, c’è stato un artista di fama internazionale a tenere un panel e a raccontarsi. Il tipo di conduzione non aveva la possibilità di far dialogare l’ospite con il pubblico, Max Giovagnoli di casa Romics presentava e Giorgio Viaro di Best Movie con Antonio Bracco di Coming Soon intervenivano tra i filmati che ripercorrevano la sua carriera con domande in tema.
Lo sguardo di Freeman è stato sempre verso i suoi fan, con saluti e piccoli gesti d’affetto, nonché una cortesia molto british nel dialogo, rara da vedere in molte celebrità.
L’adattamento cinematografico 2005 di Guida Galattica per Autostoppisti, romanzo principe di Douglas Adams per il genere sci-fi umoristico, ha introdotto la storia cinematografica di Freeman, dove si è cercato di esplorare il mondo britannico degli anni Ottanta in rapporto a quel fenomeno cult.
Martin era un bambino di tre anni quando il romanzo venne trasposto in audiolibro, quindi non aveva ricordi della prima trasposizione, ma ha ricordato che il libro era stato amato molto nella sua famiglia e si era apprezzata la trasposizione della mini-serie tv diretta e prodotta da Alan J. W. Bell.
Quel libro e i suoi adattamenti erano entrati nella cultura e nella società inglese, avevano fatto storia, quindi dover entrare in un nuovo adattamento era un onore, un’esperienza che lo ha umanamente arricchito, quanto un compito che poteva mettergli pressione.
Freeman ha lucidamente riflettuto sulle difficoltà dell’approcciare un lavoro quando si è fan di qualcosa, ci sono tanti timori, ci si sente investiti di una forte responsabilità: essere un fan ti mette pressione, per cui il modo migliore di lavorare, secondo lui, è prendere una certa distanza con il soggetto, non esser coinvolto come un fan.
Estimatore sì, fan no, sembra essere il segreto del suo modo di lavorare.
La proiezione in sala dell’incontro tra Bilbo Baggins e Gandalf annuncia il momento della chiamata dell’eroe, il momento di parlare de Lo Hobbit, per la gioia di molti cosplayers della Terra di Mezzo, presenti in sala.
Quel filmato diventa per Freeman l’occasione di parlare del lavoro sul corpo in ambito artistico. Probabilmente questo ha deluso qualche fan, coloro che avrebbero desiderato si spendessero più parole riguardo Bilbo, ma toccare il tema del corpo e del movimento ha dato una chiave di lettura inedita del lavoro di Freeman. L’attore ha spiegato le difficoltà iniziali nel lavorare sul personaggio, fin quando Peter Jackson non è intervenuto con note e delucidazioni riguardo la natura di Bilbo, sul suo non essere umano, mostrandogli come approcciare a lui. C’è un’importanza nel lavoro fisico, poiché – fa notare – il movimento e l’azione sono anch’esse delle forme di psicologia, dei modi per esternare il mondo interiore dei personaggi e capirli, espediente per poter avere la loro ottica del mondo. Così Freeman è entrato nel personaggio di Bilbo, ma non era un’eccezione perché egli non era umano, anche lavorare ad un personaggio come John Watson richiedeva uno studio fisico non indifferente.
Lupus in Fabula, portato sul tavolo del discorso John, il grande schermo non poteva che proiettare una scena tratta da Sherlock, una scena amata da lui, quanto dal pubblico (dalle fangirls che strillavano e trattenevano il fiato): il momento in cui John parla delle sue emozioni davanti alla lapide di Sherlock. in The Reichenbach Fall. Il suo “Don’t be dead” ha accarezzato teneramente le corde emotive di tutti i presenti e per Freeman è stato impossibile non leggere l’atmosfera emozionata e carica d’aspettative, ma non poteva nascondere neanche la sua di emozione. Ha ripetuto – almeno tre volte – quanto abbia amato quella scena che per lui è un modo per guardare John attraverso il suo amore per Sherlock. John, già dalla sua fisicità, fa capire la sua educazione e il suo rapporto con le emozioni: non è abituato ad esprimersi, non è abituato a dare voce a quello che prova, per questo le parole sulla tomba di Sherlock diventano per questo un momento emozionante.
Freeman fa molta attenzione nella scelta di parole, nel pronunciare emotions e love, sa che ci sono fans con aspettative intorno alla natura del rapporto tra Sherlock e John (Johnlock), la sua voce ha esitato in alcuni momenti, ma è chiaro più di tutto l’amore per il suo personaggio e quello che ha significato nella sua carriera.
E dopo le finestre sui successi passati, attraverso il trailer, viene presentato Ghost Stories di Jeremy Dyson e Andy Nyman, film horror antologico che vede nel cast – oltre a Martin Freeman – Andy Nyman, Paul Whitehouse, Alex Lawther e Jake Davies.
Il film è stato presentato nel 2017 al BFI London Film Festival e narra più storie che si legano intorno al docente di psicologia Phillip Goodman (Andy Nyman), il quale avvia la sua ricerca alla verità di inspiegabili fenomeni quando riceve una misteriosa lettera contenente informazioni su tre casi irrisolti.
Il primo commento di Martin, dopo il trailer, riguarda la sua voce in italiano: fa strano, ma gli piace la voce di Fabrizio Vidale (suo doppiatore), perché gli piace la lingua italiana.
Spezzata l’atmosfera tesa dal mood della pellicola è inevitabile si sia preso il toro per le corna: Ghost Stories è un film interessante, in cui si sottolinea molto quanto riesca a far paura e questo è probabilmente dovuto alla tradizione dell’horror sovrannaturale britannico. Per Freeman l’idea del film non è molto inglese, ma le intenzioni e i riferimenti sì; pensa che riesca a far paura per la sua importante componente psicologica, in quanto scava nelle paure più comunemente diffuse tra gli esseri umani, quelle più semplici, prese dalla nostra infanzia.
Una clip inedita viene mostrata: un padre nella camera di un bebè (forse morto tempo prima?) si gira intorno, cammina, finché dei pannolini non vengono buttati in aria. C’è dell’ironia, della semplicità, narrare con la scrittura banalizza, ma la narrazione cinematografica ci ha colti tutti di sorpresa in sala ed è proprio qui che si palesa il riferimento alle paure più semplici, che si mischiano a un tono di commedia. Martin Freeman parla di crossover tra ironia e paura, una formula che funziona come nella vita reale in cui più cose si uniscono e, per questo, portate sullo schermo diventano efficaci e riescono a farlo piangere per un episodio di The Simpson e ridere per uno show come I Soprano. La tradizione dell’orrore britannica ha sempre avvicinato motivi e scene ironiche al racconto di paura e per questo il riferimento diventa forte.
Scusandosi poi per essersi dilungato – lo fa più volte durante il panel, dispiacendosi per il lavoro del traduttore – per il suo difetto di parlare tanto, si sofferma sulla fisicità della scena, dove la parte fisica dominante è quella del pube. Dopo qualche incomprensione e risata tra il pubblico, nella sua professionalità, cerca di spiegare che è un modo di esprimersi del personaggio, quanto un modo della regia di comunicare la natura di un personaggio dominante, sicuro, quasi confortante rispetto al contesto che… sorprende – spaventa – anche lui.
Il bello del vedere l’amore di un attore per il suo lavoro dal vivo, senza filtri.
Un’altra clip mostra l’incontro tra il personaggio di Freeman e il protagonista, il professor Phillip Goodman, che in un attimo di distrazione, nel momento in cui i due si separano per via di una telefonata, è mostrato qualcosa di spaventoso ed inspiegabile che coglie di sorpresa il docente, incapace di spiegarsi cosa sia successo. E con lui anche noi del pubblico.
Sul clima di una sorpresa spaventosa collettiva, la curiosità dei conduttori si sposta sul rapporto di Freeman con il cinema horror: l’attore rivela che li ama profondamente, in ogni loro forma, perché – come per gli altri – gli piace spaventarsi, crede che sia un buon modo per superare ed esorcizzare le nostre paure, per questo ci piace sfidarci vedendo film horror.
Il primo film di paura per Martin Freeman è stato consigliato dalla sua mamma, Psycho, film che vide a 7 anni e che lo condizionò molto, avendo una vasca simile a casa era terrorizzato dal fare la doccia. Lo racconta con una punta di ironia, ma è sincero e si rende conto di non aver fatto proprio una buona pubblicità alla sua cara mamma.
Da adulto, ora, non si spaventa più perché ha una sorta di metodo, qualcosa come un istinto naturale che interviene quando si sta per spaventare: in quell’occasione ferma il film, si alza, va a farsi un tè e riprende la visione anche diverse ore dopo. Non ha vergogna di chiamarsi goof, darsi del fifone, non vuole che un film abbia la meglio, lo suggestioni e lo condizioni come quando era bambino.
Ghost Stories porta Martin Freeman a sentirsi più a suo agio nel raccontarsi e approfondire, in fondo è il motivo principale per cui è arrivato fino a noi: promuovere il film. E proprio in questo clima più disteso i conduttori arrivano allo spazio delle domande dei fans.
Oltre un centinaio di domande sono arrivate in seno all’organizzazione del Romics – alcune molto simili tra loro – e sul palco è stata fatta una severa selezione.
Il primo corpo di domande simili riguarda i consigli che può dare per diventare attori, come è stato per lui diventarlo. La sua storia d’amore con la recitazione è iniziata quando aveva 15 anni ed era parte di un gruppo teatrale a Londra di semplici appassionati.
Quello è il tipo di gruppo che si può trovare in una parrocchia, associato a delle scuole o altri centri giovanili, ed è stato per lui la chiave di accesso migliore per entrare in quel mondo, ancor prima di entrare all’Accademia Drammatica dove è stato seguito ed assistito. Per Freeman se si ama davvero quel lavoro – incoraggia, quasi paterno – bisogna proprio iniziare da esperienze simili, sono esse che formano e danno il primo slancio verso il mondo della recitazione, queste piccole realtà danno l’idea del lavoro e alimentano il sogno. Pensare di iniziare con l’obiettivo di diventare un attore famoso lo trova più che ridicolo e non ha nulla a che fare con la recitazione: recitare è dare vita a personaggi, è il desiderio di raccontare una storia, se non si ha questo bisogno – e sogno – non si può prendere seriamente il mestiere. Il successo – se arriva – arriva molto tardi, è opzionale e non è un obiettivo.
In quest’apertura i giornalisti tentano lo scoop chiedendo di Sherlock, del futuro della serie, una data, un’anticipazione, e Freeman si è sentito mortificato perché non poteva rispondere, non sapeva neanche lui molte cose, cercando di far figurare un’idea. Impacciato e imbarazzato nel non saper dare una soddisfazione al pubblico impaziente, ha raccontato di come Steven Moffat e Mark Gatiss (creatori, produttori esecutivi e principali sceneggiatori) ogni tanto abbiano delle idee, le condividano con loro più come proposte, ma di concreto è difficile dirlo anche se è sembrato che qualcosa stia bollendo in pentola.
Infine gli è stato chiesto che effetto gli facessero i fans, come cambia il fan tra Europa e Stati Uniti e come cambia il lavoro. Qualcosa cambia, sempre, di Paese in Paese, anche se poi i fans sono quelli.
In quest’occasione Martin Freeman si è perso parlando dell’Italia, consapevole di risultare ipocrita, esternando che poteva dare dare quella sensazione, ha ammesso che l’Italia è uno dei suoi posti preferiti, ne è stato affascinato, la trova rilassante e ci tiene a far sapere di aver onorato la pizza.
L’occasione del conferimento del Romics d’Oro è stata l’occasione del suo secondo viaggio in Italia, ma è risultato chiaro che avesse amato il pretesto.
Peccato che non ci sia stato modo di sapere di più del suo rapporto con l’universo cinematografico Marvel (dove interpreta Everett Ross) o di Fargo, ma la sua presenza è stata davvero un onore, soprattutto per l’umiltà e l’approccio affettuoso dimostrato con il pubblico ed i conduttori.
Speriamo di rivederti presto in Italia, Martin!