Il 13 ottobre Netflix ha aggiunto una nuova perla al suo catalogo: Mindunter, tratta dall’omonimo libro di Mark Olshaker e John E. Douglas, è una produzione importante che vede due grandi nomi di Hollywood tra i produttori esecutivi, Charlize Theron e David Fincher, il quale firma anche la regia di quattro dei dieci episodi di cui si compone questa prima stagione. Non nuovo al tema dei serial killer, palesemente affascinato dalle menti fuori dal comune che ha spesso reso protagoniste dei suoi lavori, Fincher torna a occuparsi di psicopatia, ma questa volta facendo un passo indietro nel tempo e nella fenomenologia dell’omicidio seriale.
Corre l’anno 1975, l’America accusa i risultati disastrosi della guerra nel Vietnam e la Rivoluzione Sessuale non ha ancora smussato del tutto gli spigoli di quella rigida morale che rende impossibile parlare di sesso e disturbi sessuali, imbrigliando il gergo degli agenti di polizia e della stessa FBI, impreparati ad accettare l’esistenza di assassini che uccidono per puro piacere e privi di un movente che abbia a che fare con soldi o potere. E’ tra questi sempre presenti ostacoli che nasce e si afferma l’attività di profiling, grazie alle intuizioni del giovane negoziatore Holden Ford (Jonathan Groff), aiutato dall’agente specializzato in comportamenti umani Bill Tench (Holt McCallany) e dalla psichiatra Wendy Carr (Anna Torv).
Un esordio accidentato e faticoso da seguire si trasforma in un viaggio oscuro e intrigante che tiene più saldamente incollati allo schermo ad ogni episodio, in cui il terreno d’azione è tutto nel mondo interiore dei killer quanto dei protagonisti. Ci sono viaggi, catture e interrogatori ma l’azione è quasi assente: niente inseguimenti e sparatorie, il sangue si vede solo in fotografia; i cattivi si stanano allestendo interrogatori e battendo in astuzia le loro bugie. Questa scelta si ripercuote irrimediabilmente sul ritmo, eppure grazie agli impeccabili dialoghi e alle riuscitissime interpretazioni, tra tutte l’Ed Kemper di Cameron Britton, il mistero umano rivela le proprie agghiaccianti sfumature consegnando allo spettatore un prodotto del tutto cerebrale e di grande impatto.
Un thriller psicologico atipico dunque, in cui il contesto sociale e culturale è parte integrante della vicenda, caratterizzato da un protagonista insolito che rinfresca il cliché della “coppia di sbirri”, riuscendo a regalare momenti di commedia grazie alla grande alchimia tra Jonathan Groff e Holt McCallany. Groff caratterizza con ricchezza e autoironia un personaggio in piena evoluzione: perfettino e insicuro all’inizio, scosso dalla fidanzata disinibita e dai casi risolti, riesce a sporcarsi dei racconti dei killer fino a varcare il labile e discusso confine tra comprensione e compassione, per restare sopraffatto dal peso delle sue stesse scoperte.
Mindhunter è il gioco dell’interazione di sentimenti, empatie, circostanze che determinano azioni e reazioni tra coscienze che si urtano e si influenzano irreversibilmente. E’ la trama stessa, disseminata di indizi e piccole confessioni apparentemente secondarie, a dimostrare come ogni minuzia sia in grado di pesare sull’esistenza di ciascuno. Colori freddi, strepitosa colonna sonora anni Settanta, regia minuziosa, perfetta rappresentazione del periodo storico, cast azzeccato, Mindhunter è già stato riconfermato per una seconda stagione, destinata forse a dare un seguito ai misteriosi prologhi che hanno aperto ciascun episodio.