Qualche giorno fa è finalmente uscito il tanto atteso Mowgli – Il figlio della giungla, la cui visione, precisiamo sin da subito, è stata vietata ai minori di 13 anni non affiancati da adulti, per la particolare crudezza di alcune scene.
Benché le riprese siano iniziate il 9 marzo 2015, tra il Sudafrica e gli studi Leavesden di Londra, il film ha dovuto superare, purtroppo, una travagliata vicenda distributiva, tant’è che il suo sbarco è avvenuto su Netflix solo il 7 dicembre 2018. Il primo trailer uscì il 21 maggio 2018.
Alla fine dell’800, il premio Nobel Rudyard Kipling, autore de Il Libro della Giungla, non avrebbe di certo potuto immaginare il successo che avrebbe ottenuto la sua opera nel corso dei decenni. Ed in questo, è innegabile l’importanza del contributo fornito dall’omonimo film d’animazione Disney del 1967. Insomma, chi non ricorda la scena in cui il coccoloso Baloo e il piccolo Mowgli cantano e ballano sulle note de Lo stretto indispensabile? Anche la corvina Bagheera e la temutissima tigre Shere Khan sono ormai pietre miliari nell’immaginario collettivo. Feel old yet? Pensate che sono passati 50 anni da quel giorno.
La rottura con la tradizione
Mowgli – Il figlio della giungla, diretto da Andy Serkis, è un mix di live action, motion capture e animazione ed è a tutti gli effetti un particolare adattamento cinematografico della fiaba originaria. Particolare perché? Negli ultimi anni si è assistito, sostanzialmente, al delinearsi di due correnti cinematografiche ben distinte, volte a rievocare le trame dei grandi colossal del passato: da una parte abbiamo film come Maleficent e Alice in Wonderland, che reinterpretano fiabe famose in chiave innovativa/contemporanea, e dall’altra film come La Bella e la Bestia e Il libro della giungla (2016) di Jon Favreu, che si limitano ad omaggiare le opere Disney, rispettandone la fonte originale. Qui l’innovazione messa in atto da Mowgli – il figlio della giungla, film che riesce ad ergersi con forza oltre questa rigida dicotomia.
La versione proposta da Serkis, priva di qualunque deriva canterina e spensierata, infatti, è pregna di una personalità narrativa decisamente più matura, volta a far emergere un universo crudo e selvaggio, a tratti putrescente e sanguinolento, ma di certo più fedele a quello della fiaba di Kipling. Sia ben chiaro, non siamo dinanzi ad un film di matrice horror, ma la violenza è, qui, propedeutica ed essenziale per fornire alle sequenze riflessive ed introspettive un tocco di maggior spessore: il regista ha come unico obiettivo quello di voler narrare il doloroso e travagliato processo di formazione e presa di consapevolezza del piccolo Mowgli. Ragazzi, non a caso Andy Serkis è l’uomo che ha interpretato Gollum nella saga de Il Signore degli Anelli e la scimmia Cesare ne Il Pianeta delle Scimmie.
Il piccolo cucciolo d’uomo
Sin dalle prime scene, il film risulta essere permeato ed avvolto da una fitta coltre di mistero che rasenta l’epicità. La giungla del Seeonee è una terra remota, la cui fitta vegetazione ne rendono difficile l’accesso e la scoperta. Eppure, ad introdurre lo spettatore in questo atavico regno, è il suggestivo racconto di Kaa, sinuoso pitone (in questa versione, pitonessa) delle rocce. La sua voce ipnotizzante ed ammaliante le consente di avvolgere, tra le sue spire, l’attenzione e la curiosità dell’homo ludens, senza ammettere possibilità di fuga o di distrazione. Doppiato con solennità da Cate Blanchett (lady Galadirel de Il Signore degli Anelli), Kaa è il saggio spirito della giungla, dai potenti poteri sciamanici: è colei che tutto sa e tutto vede, sia che si tratti del passato che del futuro.
La storia di Mowgli la conosciamo tutti. Si tratta del “cucciolo d’uomo” che viene accolto ed allevato da un branco di lupi. Nel film, i lupi emergono come figure ambigue, in grado di donare sì amore, ma di essere al tempo stesso anche belve feroci e voltagabbana. Ad occuparsi della formazione del piccolo saranno Bagheera e Baloo, due mentori tra loro diversi, ma complementari. Il primo, quasi fosse un fratello maggiore, non vuole difendere Mowgli ad oltranza, ma metterlo davanti alla realtà dei fatti. Per Bagheera è importante che il piccolo impari ad accettare anche la sua natura umana. Baloo, invece, meno giocoso e buffo che in passato, si preoccupa perché Mowgli apprenda la fine arte della sopravvivenza. La tigre Shere Khan brama da tempo il suo sangue.
Giungla o civiltà?
Lungo il suo cammino, il piccolo cucciolo d’uomo entrerà in contatto con una comunità di uomini, particolarmente incuriosita dal suo modo di comportarsi. Qui Mowgli dovrà affrontare il bivio più importante della sua vita: scegliere se tornare ad arrampicarsi fra le fronde degli alberi e a rotolarsi nel fango, oppure conformarsi al modus vivendi dei suoi simili, spesso non meno selvaggi e brutali della giungla stessa. Esatto, perché c’è una bella differenza tra gli esseri umani e l’essere umani dentro. Senza mai cadere nella dietrologia dicotomica dei buoni contrapposti ai cattivi, Serkis crea un sistema morale complesso, in cui ogni personaggio deve fare i conti col proprio vissuto e scegliere, in base a un proprio codice etico, quale sia la strada più retta da seguire.
Anche la giungla ha, infatti, le sue leggi, estranee solo al popolo delle scimmie: un codice morale che spesso striderà con il senso di giustizia dello spettatore. Le tradizioni da onorare al costo della vita, i patti di reciproca convivenza, la rendono una terra estremamente inospitale e non sempre di facile comprensione. La giungla non fungerà, quindi, da semplice contorno alle azioni che ci troveremo a vivere, ma sarà in grado di plasmare le esistenze dei singoli personaggi, divenendo essa stessa cuore pulsante della narrazione.
Il finale, seppur un po’ frettoloso, fa comunque di Mowgli – Il figlio della giungla un remake volto a riscoprire il senso più autentico e crudo delle fiabe di un tempo: lasciare ai più piccoli un insegnamento, anche se inviso od ostico.
Mowgli, un personaggio a “tutto tondo”
Più ci si avvicinerà all’epilogo della storia e più Mowgli dovrà fare i conti con un pericolo ben più grande di Shere Khan: se stesso. Qui l’originalità del risvolto drammatico e psicologico che si è voluto dare alla trama. Ormai ragazzino, Mowgli si trova a dover affrontare i propri demoni interiori, a dover prendere consapevolezza di quali siano le sue reali radici e di quanto sia in realtà diverso dagli altri lupi. Il bullismo messo in atto dagli altri cuccioli del branco, inoltre, non lo aiuteranno di certo a risolvere i suoi travagli psicologici, facendolo anzi sprofondare in un vortice di irrequietezza ed aggressività quasi autodistruttive. Mai come in questo film, il Mowgli che tutti noi conosciamo è stato caratterizzato con così tanta minuzia. I suoi occhi grandi, voraci e curiosi sono pieni di domande sulla natura: la sua e quella che li circonda.
Anche gli altri personaggi sono saggiamente caratterizzati. Bagheera, Baloo, Shere Khan e l’anziano lupo Akela sono coperti di cicatrici e ferite, segnati da menomazioni e traumi. Come a dire che è difficile svincolarsi dal passato, impossibile sfuggire da chi si è stati: nessuno cambia in ciò che non è, ma tutti ci trasformiamo nel noi più intimo e recondito.
L’abilità cinematografica e il cast
Maestro del motion capture ed esperto del mondo animale, Serkis dona alle sue creature occhi enormi ed espressivi, nonché un carisma estraneo al remake del 2016 di Jon Favreau. Questa scelta compensa il fatto che non tutti i personaggi siano realizzati con la stessa attenzione e che alcuni ci appaiano più sgraziati e meno curati nelle movenze. Gli animali e gli alberi sono visibilmente artefatti, a tratti artificiali, soprattutto quando in scena ci sono interpreti umani.
Il cast in lingua originale è d’eccezione: Rohan Chand, nei panni di Mowgli, Matthew Rhys sarà Lockwood, Freida Pinto sarà Messua, Christian Bale nel ruolo di Bagheera, Cate Blanchett in quello del pitone Kaa, Naomie Harris nei panni di Nisha (mamma lupa), Peter Mullan sarà Akela (il capobranco dei lupi), Eddie Marsan sarà papà lupo, il compagno di Nisha, e Tom Hollander lo sciacallo Tabaqui. Menzione speciale però va fatta per Andy Serkis che, oltre al ruolo di regista, presterà la voce all’orso Baloo e il cattivone della storia, la tigre Shere Khan, interpretato da Benedict Cumberbatch.