Naples ’44 è un libro uscito nel 1978. Scritto da Norman Lewis, il libro racconta le memorie delle autore quando, a metà del secondo conflitto mondiale, subito dopo la liberazione del Sud Italia dall’esercito nazista, era nel Field Security Service di stanza a Napoli. Francesco Patierno ha presentato quest’anno all’undicesima Festa del cinema di Roma il suo film tratto dal libro di Lewis. L’opera di Patierno miscela insieme filmati di repertorio e riprese realizzate per l’occasione, mentre l’onere di raccontare le memorie è di Benedict Cumberbatch, neanche a dirlo bravissimo.
Lezioni di storia
Lewis è arrivato in Campania con i reparti inglesi assegnati a garantire supporto a quelli americani, durante lo sbarco a Salerno. Dopo l’arrivo ha dovuto raggiungere Napoli, dove si è stabilito, assegnato al Field Security Service. Lewis però inizia a raccontare la sua storia da prima, dall’arrivo, ed il filo conduttore principale sono le riprese fatte ai giorni nostri, nelle quali il militare torna a Napoli per vedere ancora una volta la città di cui si era innamorato. Sono quindi memorie, è bene ricordarlo, e non un racconto di guerra. La memoria è diversa da un diario scritto giorno per giorno, perché i ricordi falliscono, non ricostruiscono la realtà per come è davvero stata, e quindi la edulcorano, o la sporcano. Questa ovviamente non è una critica ai racconti di Lewis, che anzi appaiono molto lucidi a tratti, mentre quando racconta delle persone che ha incontrato spesso si intravede come il sentimento abbia preso il sopravvento, ed è certamente uno dei tratti più toccanti dell’opera di Patierno. Così il soggiorno napoletano dell’ex militare dura un anno, un anno da cui vediamo tutti gli orrori della guerra. La prostituzione per poter mangiare, o per poter avere una vita migliore fa da contraltare a un popolo che cerca di resistere e di stare in piedi, a metà tra la ricerca di escamotage ed una dignità quasi anacronistica. I film dell’epoca, che mostravano la lucente fanfara dell’esercito alleato che arriva in pompa magna nelle città liberate si scontra con il racconto delle donne in fila pronte a vendersi sul posto, di fronte a tutti, per una razione di cibo. I bambini cechi che entrano nel ristorante per cercare di avere qualcosa da mangiare, nell’indifferenza degli avventori che pure, per potersi permettere di mangiare fuori, sicuramente appartenevano a classi agiate, o erano soldati alleati, fanno stringere il cuore. E poi ci sono le bombe, programmate per uno scoppio ritardato che più che mietere vittime fiacca la stabilità mentale della città, terrorizzando il popolo in vista di una prossima, eventuale, esplosione, che non si sa quando avverrà, se avverrà.
Vedi Napoli e poi muori
Ci sono poi gli esseri umani, quelli conosciuti personalmente dall’autore, che vengono raccontati con quel tono sfocato che appartiene solo al ricordo, che ne smussa gli spigoli e fa scendere qualche lacrima. Patierno gioca con le emozioni dello spettatore in modo molto delicato, riuscendo a farlo empatizzare sia con le masse martoriate dalla guerra che con le singole umanità. Nel frattempo il racconto degli orrori del secondo conflitto mondiale emerge forte, e ci mostra come a soffrire siano tutti, ma prevalentemente i civili. Non ci sono analisi storiche nel film, non si danno ragioni a nessuno dei due schieramenti in campo, ma le brutture che derivano dalla guerra escono fuori lo stesso, urlando in faccia agli astanti lo schermo quanto male è stato fatto. In tutto questo, Lewis scrive la sua lettera d’amore alla città di Napoli e alla sua gente, alla sua cultura. E bisogna dare atto che anche solo la bellezza della città, da sola, riesce a far scendere qualche lacrimuccia.
Il racconto è narrato nella versione originale da Benedict Cumberbatch e nella versione italiana da Adriano Giannini. La versione da noi vista in occasione della Festa del cinema di Roma era in lingua originale, e possiamo testimoniare come il lavoro fatto dall’attore inglese sia di livello veramente elevatissimo. A questo bisogna aggiungere una colonna sonora di livello tanto bella quanto sempre azzeccata, e un lavoro di montaggio certamente sopra la media, necessario in un film che utilizza pochissimo materiali girati per l’occasione, preferendogli spezzoni di film d’epoca e immagini di repertorio.