Arriva un momento nella storia di una serie in cui si comincia a sentire la necessità di concludere. Un momento, cioè, nel quale un format o un contenitore sentono il peso di quello che è stato “già fatto” e “già detto” al punto da non riuscire più a inventare nulla. Così muoiono molte serie. Questo è il rischio che i ragazzi di Narcos: Messico hanno corso.
Nani sulle spalle dei giganti
La prima sensazione che si ha guardando Narcos: Messico è che ci si trovi davanti a una serie che non ha più molto da offrire e soprattutto che non è in grado di toccare i vertici della serie originale ambientata in Colombia. Vero è che anche i personaggi rafforzano questo pensiero. Non ci troveremo davanti a spietati tagliagole né a spiritualmente combattuti narcotrafficanti. Anche se la terza serie di Narcos ci aveva mostrato il lato più affarista dei fratelli Rodriguez l’efferata violenza era sempre all’ordine del giorno. In Messico le cose cambiano. Il Messico, prima di tutto non era la Colombia. Il Messico, e questo nella serie si vede chiaramente, risentiva fin troppo della vicinanza con gli Stati Uniti i quali, senza remore, avevano “permesso” la coltivazione della cannabis in modo che il mercato messicano non si spostasse su altre sostanze.
Ecco allora che il primo “nano”, Miguel Angel Felix Gallardo, interpretato da uno straordinario Diego Luna il cui solo difetto è quello di essere costretto a fare sempre la stessa faccia preoccupata e pensierosa qualunque cosa faccia, fiuta l’affare e si getta con un suo amico fraterno, Rafael Caro Quintero (interpretato da un meraviglioso Tenoch Huerta) in qualcosa che è sì più grande di loro ma che allo stesso tempo sentono di poter controllare: il traffico di marijuana dal Messico agli Stati Uniti.
Dalla creazione della famosissima sensimilla alla presa del potere su tutte le piazze di smercio messicane è un attimo e la bravura di Felix Gallardo è quella di dover sparare un solo colpo di pistola per riuscire ad aggiudicarsi tutto l’impero. Fin dall’inizio Felix passa il tempo a pensare, una cosa molto diversa da un Pablo Escobar qualunque che cercava di ottenere l’appoggio di altre figure con l’intimidazione, la corruzione e la violenza. Gallardo è diverso, e lungo tutta la serie lo vedremo raramente perdere le staffe anche se quando lo farà sarà in modo incontrollabile.
Il (vero) protagonista
Come in Narcos, Narcos: Messico vede come protagonista la DEA americana, l’ufficio preposto allo smantellamento delle organizzazioni criminali che fanno filtrare negli USA la droga. Kiki Camarena (Michael Peña) è l’agente che si fa assegnare al Messico con una certa delusione, convinto che non avrà nulla da fare. Le cose invece, almeno per lui, prendono quasi subito una piega ben diversa. Kiki capisce che se questi narcotrafficanti sono liberi di fare quello che più vogliono è solo a causa del benestare degli Stati Uniti. Dovrà scavare e scoprire assurde verità, minare la corruzione del suo Paese e resistere a una criminalità che lui costringe a uscire dal buio.
Purtroppo però la sua figura non spicca più di tanto, e la stessa cosa si potrebbe dire di Peña e Murphy della serie appena andata in pensione. I protagonisti di Narcos sono i cattivi, questo è certo, ma se nelle passate stagioni gli agenti della DEA avevano delle ragioni molto più profonde per avercela coi narcotrafficanti in Narcos: Messico fatichiamo a stare dalla parte di Kiki Camarena perché ciò che lo muove è essenzialmente il dovere, nulla di più, e qualsiasi sceneggiatore sa che il dovere è un movente piuttosto debole, soprattutto per un poliziotto in Messico.
Tra differenze e difetti
Se vi aspettate che Narcos: Messico vi dia le stesse sensazioni delle precedenti stagioni dobbiamo deludervi: è un’altra cosa. La differenza non implica comunque un difetto d’origine, anzi, questa serie ha carattere e lo dimostra più volte. Anche il ricorso a personaggi delle serie precedenti è inserito ad arte, in un crescendo di suspense in cui i cameo si calano alla perfezione senza disturbare e soprattutto senza far gridare allo scandalo gli spettatori più stanchi di questi mezzucci da soap-opera. Se questo basta a rendere le due serie coerenti con se stesse non basta a ravvivare l’interesse del pubblico.
Purtroppo la serie non ha il mordente delle precedenti ma è anche normale: il Messico non è la Colombia. Con buona pace di chi pensa che solo sparatorie e grandi tirate di naso possano divertirlo a sufficienza. In ogni caso, lo ripetiamo, Narcos: Messico è un’ottima serie sotto il profilo tecnico ma meno su quello della scrittura. Nelle prime puntate si nota la mano dei registi soffermarsi su alcune caratteristiche del Messico quasi a mo’ di documentario, purtroppo si tratta di fugaci visioni e ben presto saranno gli interni a farla da padrone. Un’occasione sprecata per mostrare al mondo la bellezza di un Paese pur in mezzo a tutte le proprie contraddizioni. A difendere il punto conquistato ci sono delle prestazioni attoriali di tutto rispetto, nessuno dei personaggi è eccessivo né troppo spento, tutti gli attori hanno dato il massimo e hanno bene interpretato i ruoli assegnati pur con la difficoltà di non poter spaziare rispetto alle figure originali. Da segnalare in particolare le prove attoriali di Matt Letscher (un animale da serie tv) e della stupenda Teresa Ruiz della quale sentiremo certamente ancora parlare.