L’8 marzo prossimo uscirà nelle sale l’undicesimo lungometraggio del regista Marco Tullio Giordana, dal titolo Nome di donna.
Il regista decide di presentarlo alla stampa affiancato da parte del cast e dalla sceneggiatrice Cristiana Mainardi, la quale due anni or sono propose a Giordana il progetto di un film che trattasse la tematica delle molestie subite dalle donne sul luogo di lavoro.
Un’indagine Istat svolta nel 2008/2009 accerta che in Italia circa la metà delle donne (10 milioni e 485mila), in un arco di vita compreso fra i 14 e i 65 anni, ha subito ricatti sessuali o molestie nel luogo di lavoro, numero affinato a 8 milioni e 816 mila nel nuovo rapporto del 2015/16.
E se le statistiche si esprimono rigide e schiette, appare assurdo che un tema di tale spessore fosse stato consapevolmente ignorato dal grande schermo come con l’onnipresente elefante nel salotto. E’ certo questa una delle ragioni per le quali la sceneggiatura della giornalista è stata accolta con entusiasmo dal cineasta che rifiuta con l’estremismo più alternativo l’appellativo di maestro.
“Era una sceneggiatura molto bella, due o tre anni fa non è che il problema non esistesse ma non era così sugli scudi come oggi.”, dichiara Giordana, proseguendo “Mi è piaciuto il fatto che non affrontasse questo tema dal punto di vista militante, ma indagasse un personaggio femminile coraggioso e temerario e quello che succede intorno alle altre donne, non solo quelle che sono state oggetto delle attenzioni del personaggio di Binasco, ma tutti i personaggi femminili non erano giudicati, erano raccontati nella loro fragilità e anche nei danni collaterali”.
La storia è incentrata sul personaggio di Nina (Cristiana Capotondi), una ragazza madre che ha vissuto un periodo difficile e, in seguito alla chiusura dello studio di restauro per il quale lavorava, trova un impiego come inserviente presso una prestigiosa clinica per anziani.
La nuova professione non è certo quella dei sogni, ma la giovane donna desidera l’indipendenza economica per lei e la figlia.
In seguito ai mesi di prova, la ragazza viene assunta ufficialmente dalla casa, fino a quando il capo della clinica convoca Nina nel proprio ufficio.
L’uomo le offre un bicchiere di vino, alcuni complimenti per giungere infine alle molestie.
La donna fugge e, in seguito allo shock psicologico, decide di denunciare, portando alla luce la radicata realtà sugli abusi perpetrati per anni dall’uomo nei confronti delle proprie dipendenti.
Ma il dramma vissuto da Nina non è soltanto inerente la violenza psicologica subita dal “dottor” Marco Maria Torri, interpretato da un eccellente Valerio Binasco.
La battaglia della giovane donna è ben più dura e solitaria, contro l’omertà e l’indifferenza dei pusillanimi, sfidando la paura delle altre vittime, trovando la forza dentro sé stessa.
Perché, lungi dall’essere giudice il cineasta, lo spettatore non può esimersi dal notare come la protagonista di Giordana sia circondata da uomini piccoli e da donne cariche di rassegnazione (eccezion fatta per l’avvocatessa, una straordinaria Michela Cescon e le sindacaliste che lottano contro il potere per propria natura), tanto da far apparire Nina ancor più straordinaria nella propria unicità.
Ed è un po’ questa l’impressione di una protagonista la cui caratterizzazione emerge grazie al contrasto con personaggi dalla diabolica fragilità, il cui coraggio è più un dato di fatto funzionale all’epilogo che un pregio insito nella ragazza.
Ed è un po’ questo il motivo per cui nella rispettosa, discreta regia di Marco Tullio Giordana manca qualsivoglia autorialità e grazie alla sceneggiatura scevra d’ogni giudizio, lo spettatore giunge ai titoli di coda avendo assistito ad un’opera che ha più elementi in comune con la saggistica che con un prodotto artistico.