Nel catalogo di Netflix il 18 ottobre è arrivato Panama Papers (The Laundromat), presentato dal regista Steven Soderbergh alla 76esima mostra del cinema di Venezia. Il film è un adattamento del libro Secrecy World: Inside the Panama Papers, Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite del giornalista Jake Bernstein, pubblicato a seguito dello scandalo finanziario che nel 2016 ha rivelato tutta la fragilità del sistema fiscale statunitense, sbilanciato a favore dei grandi capitali. Il regista firma un’opera schiettamente politica e punta il dito contro l’ambiguità delle leggi e un’amministrazione connivente per spiegare al suo pubblico che la differenza tra elusione ed evasione fiscale è sottile come le pareti di una prigione.
Un incidente in barca e due professori d’eccezione
Come fa un’onda anomala lanciata contro un’imbarcazione turistica a rivelare un intero sistema di conti offshore? Lo scopriremo grazie alla caparbietà di Ellen Marty, (l’infallibile Meryl Streep), vedova a causa del suddetto incidente, che oltre al danno si trova a subire le beffe di un risarcimento irrisorio e della perdita dell’appartamento, venduto dalla spietata Sharon Stone. Con una determinazione che ricorda Erin Brokovich e interminabili domande, Ellen offre l’occasione di spiegare come funzionano certi spostamenti di denaro a sei cifre a due insegnanti eccellenti: il Premio Oscar Gary Oldman e Antonio Banderas. Nei panni di Jurgen Mossack e Ramon Fonseca, i due narrano la vicenda con brillanti interventi metacinematografici, metafore spicciole e un raro concentrato di cinismo, aiutando gli spettatori a orientarsi tra azioni al portatore e società di società inesistenti sparse per i continenti, fino al furto dei documenti che hanno dato il nome al fattaccio da parte di un misterioso hacker.
Beati i miti perché erediteranno la terra?
Il film si pone nel filone del cinema educativo e apertamente politico, in cui il lato umano serve soprattutto a veicolare la denuncia. E se i personaggi interpretati da Oldman e Banderas non cercano neanche di giustificare le loro azioni incarnando il modello del perfetto capitalista liberale, comunque utilissimo a smascherare le falle del sistema, è la signora Streep a spiegare a chiarissime lettere il senso ultimo di Panama Papers. Grazie a un piccolo twist e a un fiero monologo che spinge l’attrice oltre il personaggio di Ellen, la verità viene dichiarata senza mezzi termini: gli Stati Uniti, con la loro politica accondiscendente, sono il più grande paradiso fiscale del mondo. Nessun governo, infatti, sembra realmente interessato a rimediare all’ingiustizia sociale che rinuncia a tassare i grandi ricchi a totale discapito delle sempre più sottili fila della middle class americana. E se i milionari prosperano, gli operatori disonesti scontano al massimo tre mesi di carcere e le persone comuni non possono fare altro che pregare, Soderbergh scaglia sulla società il deflagrante dilemma come fosse una bomba e chiede a gran voce che si ponga rimedio.
Panama Papers, una commedia amara che guarda a La grande scommessa
Il tema, l’amaro finale e le lezioni metanarrative di economia non possono non ricordare il film di Adam McKay sulla crisi finanziaria del 2008. Diviso in cinque capitoli, mescolando vicende personali e finanziare, il film deve moltissimo alla presenza dei suoi protagonisti e agli espedienti scenici che movimentano i loro intermezzi, che poi sono la vera ossatura dell’opera e permettono di reggere in maniera godibile un argomento ostico e complicato come quello in questione. Senza l’interpretazione di questi pezzi da novanta e alla briosa atmosfera in cui sono collocati, probabilmente la pellicola sarebbe risultata lenta e indigesta. Alla loro eccellente comprimaria resta invece il compito di far capire come la questione fiscale non sia roba “da ricchi”, di nessun interesse di quel 99% che non gode di certi privilegi, ma abbia ripercussioni su tutte le classi sociali di una nazione. Soderbergh padroneggia perfettamente l’intreccio e gli strumenti scenici, riuscendo a limitare i problemi di ritmo, a dirigere cambi di registro e deviazioni di trama e a mantenere coerenza, fino a lasciare gli spettatori a fare i conti con doverose riflessioni e domande.