Il genere Sci-Fi ciclicamente torna a fare capolino nelle sale cinematografiche. In questo caso, più specificatamente, stiamo parlando del filone legato ai viaggi spaziali. Oltre al commercialmente enorme Star Wars, che è tornato a battere cassa in questi ultimi due anni, nell’ultimo periodo è interessante notare come abbiano potuto trovare posto alcune chicche dedicate allo spazio, ma con un taglio più serioso ed incentrato sulla tecnologia futuribile. Gli esempi più facili sono Gravity e Interstellar, i quali, ognuno a suo modo, sono andati ad approfondire i problemi che potrebbero verificarsi durante un viaggio spaziale. Era quindi solo questione di tempo prima di ritrovarsi di fronte ad un prodotto che, partendo dai presupposti sopracitati, inserisse una storia d’amore dai risolti drammatici: da qui nasce Passengers.
Il film di Morten Tyldum ci porta sulla nave interstellare Avalon, intenta ad accompagnare i suoi 5000 ospiti sulla nuova colonia Homestead II. A novanta anni ancora da compiere prima di arrivare a destinazione, un’avaria fa sì che Jim Preston, intepretato da Chris Pratt, si svegli prima del previsto. Un’anomalia che non è in alcun modo prevista dal protocollo di sicurezza e che lascia Jim solo ed abbandonato, senza che possa avere contatti con la terra, né tantomeno con il personale di bordo che è anch’esso ibernato. Da queste premesse il film cerca di approfondire la problematica del tempo e della solitudine, cercando di dare una rappresentazione cinematografica dei risvolti psichiatrici che le due cose unite possono causare. Le cose cambiano in parte quando Jim incontrerà Aurora, interpretata da Jennifer Lawrence, giovane scrittrice figlia d’arte che vuole raggiungere la nuova colonia per avere una nuova storia da raccontare. La personalità della ragazza va quindi a scontrarsi contro quella di Jim, che vuole raggiungere il nuovo mondo per poter mettere a disposizione di tutti le sue capacità di meccanico, inventore e tutto fare. Dopo momenti di spasso, amore, tristezza e odio, i due dovranno fronteggiare una problematica che va oltre ai loro sentimenti reciproci e che mette a rischio la riuscita della missione di colonizzazione.
Se la trama di base potrebbe sembrare interessante, anche se in parte già vista in altri ambiti, basta poco estraniarsi dal mood del film e iniziare a porse delle domande basilari alle quali il film non risponde o da soluzioni inconsistenti. Com’è possibile che una missione interstellare dalla durata di 130 anni non preveda un controllo umano sull’andamento della missione, anche solo a turno tra i 260 membri dell’equipaggio? Com’è possibile che in un viaggio così lungo e pericoloso non sia previsto alcun tipo di rimedio nel caso in cui un passeggero si risvegli inavvertitamente? Benché sulle prime il film metta in scena considerazioni e approfondimenti psicologici tutto sommato sensati, anche se al limite dello stereotipo, è difficile seguire l’incedere degli avvenimenti senza che i presupposti di base vengano messi in dubbio. Il tutto si amplifica a tre quarti della pellicola con la comparsa (e quasi immediata scomparsa) del capo tecnico di missione, interpretato da Laurence Fishburne, che non si rivelerà essere il deus ex machina che il suo titolo avrebbe lasciato immaginare. Infine tutto si frantuma definitivamente verso il finale, dove la scena più drammatica dell’intero film ha fatto scoppiare fragorose risate in sala.