Se il cinema è riuscito negli anni a diventare una vera e propria arte, considerata alla stregua di pittura e scultura, lo deve anche a registi come Jim Jarmusch, visionario esponente della scena cinematografica indipendente americana e mondiale. Registi che hanno saputo superare e mettere in discussione dogmi radicati della narrazione su pellicola per portare qualcosa di nuovo, di mai visto, di sorprendente, ma anche intimo e in grado di far riflettere. L’intera cinematografia di Jarmusch è un’esperienza decisamente peculiare, capace di far impazzire i critici di una certa scuola, audience come quelle del Sundance Festival o di Cannes, ma altrettanto difficili da comprendere e apprezzare per il grande pubblico. Tuttavia, solitamente l’estrema qualità di queste poesie di cellulosa riesce a passare il suo messaggio anche a chi è abituato a entrare al cinema solo per il nuovo Minions o magari il cinepanettone di turno. Solitamente, perché Paterson, l’ultima creazione di Jarmusch, da questo punto di vista fallisce miseramente il suo obbiettivo, creando un loop narrativo apprezzabile soltanto dai puristi e più alternativi.
Se ti chiami Driver, puoi fare solo quel lavoro lì…
Paterson è la storia di Paterson. Davvero, il protagonista del film condivide il nome con il film stesso e anche la cittadina nella quale sono ambientate le vicende della storia, un medio-piccolo borgo nello stato del New Jersey. Paterson è una città americana molto semplice e di provincia, nella quale il tempo sembra essersi fermato. Anche il film sembra perduto nel tempo, tanto che per i primi 20’ non ci si rende conto minimamente dell’epoca nella quale è ambientato, almeno fino al momento in cui un ragazzino menziona Instagram. In questa città vive una coppia: lui, autista di autobus, lei, artista a tempo perso. Jarmusch ci farà seguire una settimana nella vita di queste due persone, alla scoperta di personaggi profondi e di uno spaccato di vita a stelle e strisce, nell’attesa di una svolta che però non arriverà mai.
Paterson, impersonato da un sorprendente Adam Driver, è un pacato pilota (“driver…” appunto) di mezzi pubblici, una persona dai valori molto semplici, silenziosa e rispettosa, con un passatempo alquanto singolare: scrivere poesie. Ebbene sì, mentre la maggioranza dei suoi coetanei probabilmente occupa il suo tempo libero con NFL o console da gioco, Paterson non guarda nemmeno la TV e, oltre alla scappatella serale al bar consueta, si dedica alla lettura, ma soprattutto alla scrittura, di poesie crude e uniche, con uno stile esageratamente alternativo ma ben adatto alle rustiche e provinciali origini del suo autore. Non ci sono sonetti alla Petrarca o l’ermetismo di Ungaretti, ci sono parole del vocabolario di tutti i giorni, piazzate sul foglio di un quadernetto a descrivere emozioni, emozioni scaturite dalla quotidianità.
L’esaltazione del nulla
Perché Paterson non è altro che la più grande celebrazione della routine mai realizzata. Quasi tre ore di pellicola nelle quali il regista implica l’esistenza di un dramma, di una svolta narrativa, di un messaggio che però non arriva mai, un’opera che si attorciglia nel suo stile disruptive e fuori dagli schemi, finendo però per finire in uno schema ben preciso: quello della noia e dell’indifferenza. Le vicende della coppia infatti si trascinano via, con un unico elemento di rottura che infine finisce per significare meno di zero e far seriamente riflettere sul senso di un’opera del genere per un pubblico più allargato che quello del Club del cinema di Novara (che salutiamo e rispettiamo, per carità).
Gli spunti più interessanti vengono dall’esterno, al di fuori della cerchia famigliare e della storia vera e propria, certo approfondita, ma arroccata nella sua ripetitività. Similmente a quanto succede in un suo altro capolavoro come Coffee & Cigarettes, Paterson – nel suo ruolo di autista – ascolta racconti di gente comune che sale sul suo mezzo, bellissime storie di amicizia e quotidianità, uno dei punti forti del film e dove la genialità di Jarmusch fa di nuovo capolino come un paguro fuori dal suo guscio, piano piano e con circospezione.
Un’altra nota lieta è la performance di Golshifteh Farahani, nei panni della vulcanica moglie di Paterson, la variazione di colore e di ritmo che il film tanto disperatamente cerca. Paterson è un film volutamente nichilista e senza messaggio, ma in una maniera che esula l’arte che vuole scimmiottare.
Invece, non abbiamo apprezzato il ruolo dei diversi personaggi di colore del film, utilizzati a macchia d’olio come comparse o interpreti secondari di Paterson. L’aver inserito non certo casualmente, così tanti personaggi “colored”, è una mossa che però sortisce l’effetto contrario paradossalmente di quello che probabilmente cercava. Jarmusch presumibilmente intendeva celebrare la diversità e invece, dando la quasi totalità dei ruoli di contorno a persone di colore, in una maniera poco realistica per una piccola città del New England, finisce per rendere la cosa una “notizia” e un elemento che noterete durante la visione del film, il perfetto contrario di quanto sia in verità la celebrazione della diversità e dell’integrazione, ossia la normalità.
Una recensione difficile
Ci siamo trovati comunque molto in difficoltà nel giudicare un film del genere, che rassomiglia tanto alle poesie composte dal suo protagonista. Gli elementi buoni ci sono, a partire dalla sapiente fotografia, il “tocco” di Jarmusch nel costruire luoghi e personaggi e nel mettere in scena un lungometraggio dall’evidente carica emotiva e di riflessione.