Nel mondo del fumetto italiano esiste un prima e un dopo Zerocalcare. Per dare l’idea di quanto importante sia diventato per la stragrande maggioranza di coloro che un giorno hanno deciso di dare un’occhiata ai suoi libri, non bastano i numeri delle copie vendute o delle ristampe. Michele Rech, che da qualche anno a questa parte si imbarazza se qualcuno lo chiama Zero, è un genio che si è trovato nel posto giusto al momento giusto. La sua grandezza consiste nella capacità di parlare a tutti, di far venire voglia al lettore di “diventare amico suo”, come scrive Makkox nell’introduzione de La Profezia dell’Armadillo.
Iniziamo da Zero
Voce di una generazione con la raucedine perenne e le mani legate, i fumetti di Michele sono verbosi, familiari, densi e dinamici. Nonostante la sovrabbondanza di auto narrazioni su Facebook e altri social, Michele porta avanti la sua senza perdere un colpo. Probabilmente perché la sincerità con cui si dona al lettore, i suoi scrupoli continui e il suo disorientamento esistenziale non vivono solo sulla carta stampata. Come uno di quei vecchi amici che ci saranno sempre, Michele resta sempre Michele.
Di un film tratto dal suo esordio, La Profezia dell’Armadillo, si parlava dal lontano 2013 (i lettori più elefantiaci ricorderanno la storia con Valerio Mastandrea e il Porta-Spade-di-Damocle, comparsa sul blog e nella raccolta L’Elenco Telefonico degli Accolli), ma il progetto è stato più volte messo in pausa. Doveva essere l’esordio alla regia di Valerio Mastandrea, per poi diventare quello di Emanuele Scaringi, che lo ha girato a partire da aprile, giusto in tempo per concorrere nella sezione “Orizzonti” del Festival del Cinema di Venezia. Zerocalcare ha firmato la sceneggiatura del film, ma ha da subito sottolineato come si discosti dal fumetto, come sottolineato da lui stesso in queste tavole.
La Profezia dell’Armadillo
Zero è un ventisettenne di Rebibbia, si barcamena tra vari lavoretti mentre cerca di sfondare come disegnatore. Una perdita inaspettata lo porterà a fare i conti con i suoi sentimenti del passato e con la sua incapacità di crescere. Accanto a lui, l’amico d’infanzia Secco, l’apprensiva mamma e la coscienza critica, un armadillo immaginario con cui Zero ha lunghe e accese discussioni. Il film è un immersione nella vita di un ragazzo romano sulla soglia dei trenta alla ricerca del suo posto nel mondo, ammesso che ci sia.
Non è facile parlare di questo film e tirare delle conclusioni certe. Ci sono moltissimi elementi da tenere in considerazione, a cominciare dai difetti.
I flashback con Camille sono discutibili, troppo Tempo delle Mele (che, come ci ricorda Raz in Albakiara, è finito da un pezzo). Il film prende dal fumetto una verbosità che sullo schermo a tratti sfocia nella retorica, l’umorismo spesso risulta troppo esagerato e semplicistico, le scene di azione sono poche, anche in questo caso per mantenersi fedeli al fumetto. Il personaggio del Tempo è ridotto ad un escamotage ricorrente, non è il fil rouge che mette insieme le storie dell’originale. Quindi il conflitto del protagonista risulta poco chiaro. Insomma, la scrittura traballa parecchio.
Ma i pregi ci sono, a cominciare dagli interpreti: sono molto bravi sia Simone Liberati nella parte di Zero (che potevano pure chiamare Michele ma vabbè), Pietro Castellitto nella parte di Secco (con quel naso è uguale) e perfino la Morante nella parte della madre, che al primo impatto del trailer si prospettasse una tragedia, è invece giustissima per il ruolo. Buffissimo il cameo di Panatta (un po’ morettiano), ottimo Valerio Aprea che dopo essersi guadagnato un posto nel cuore degli spettatori di Boris e Smetto Quando Voglio, anche con l’armadillo in costume fa centro.
La nota più positiva resta il racconto di Rebibbia: è liberatorio veder passare la metro B che spunta da Ponte Mammolo, i palazzoni alti con i cancelli piccoli, non solo come teatrino di sparatorie e macabre storie di droga, come succede di solito nei film ambientati in periferia, ma come parte di un racconto che si prende i suoi tempi, come una comunità viva e accogliente. Inoltre ascoltare alcune frasi de La Profezia dalla bocca dei personaggi ne conferma la genialità.
Ma Woody Allen insegna che regia e attori non bastano a salvare un film con problemi di scrittura, e probabilmente anche in questo caso ha ragione.
Mo’ tocca strigne
Il film non è esente da difetti. Per nulla. L’iter produttivo lungo e sofferto si percepisce, molte scelte di scrittura sono un po’ naive, e probabilmente chi conosce poco o male Zerocalcare non sarà invogliato a scoprirlo dopo aver visto il film. Eppure l’esordio di Scaringi cerca di rispondere a modo suo ad un’esigenza a cui Michele Rech rispose con il suo.
Per arrivarci si può partire da Sideways, grazioso film americano indipendente del 2005, diretto da Alexander Payne. I protagonisti di Sideways sono due rampanti quaranatenni bamboccioni (ben interpretati da Paul Giamatti e Thomas “uomosabbiadispiedermantre” Haden Church) che girano per la California sorseggiando vino e vivendo avventurelle sentimentali. Quando il cinema italiano non fa cinepanettoni o drammoni criminali, fa Sideways. Ossia: commedie soft, scorrevoli e piacevoli su rampanti quarantenni. Nonostante le varie mosche bianche (Smetto Quando Voglio, Lo chiamavano Jeeg Robot più altri esempi che potranno venire in mente a chi legge) che incoraggiano un discorso sulla contaminazione dei generi e cercano di battere nuove strade, in Italia le storie e i protagonisti spesso si somigliano. Ecco, questo film, con tutti i rischi e gli sbagli del caso, non è così. Non è La Profezia dell’Armadillo che hanno amato i fan, non è sempre divertente e i cinquantenni sovrappeso vedendolo scuoteranno il doppio mento chiedendosi “dove andremo a finire”, eppure il MA di questo film prevale su tutto questo.
Bieca operazione commerciale? Forse, ma se lo avessero fatto in Amerrika nessuno avrebbe fiatato. Potevano farlo prima e meglio? Se le case di produzione guadagnassero un centesimo per ogni volta che viene pronunciata una frase simile, in Italia saremmo alla decima stagione de I Medici. Ma di solito chi la pronuncia l’ultima volta che è entrato in sala ha visto Avatar. I difetti sono difetti, certo, ma i rischi sono rischi, e adattare La Profezia dell’Armadillo è un’impresa titanica. Chiunque ami Zerocalcare dovrebbe rifletterci e riconoscerlo, invece di commentargli contro sul blog come fanno i fan offesi. È stato Miyazaki a dire che non si definisce un otaku* perché gli otaku adorano ma non imparano mai. Ecco, bisogna sforzarsi di non essere otaku ma di cercare il cuore di questo film, che c’è.
*Per chi vive su Marte, l’otaku qui in penisola è l’appassionato di manga e anime. In Giappone, invece, è l’appassionato di qualunque argomento o disciplina, dagli aerei ai francobolli. ndr
Perché parlare di un film senza tenere in considerazione tutto quello che lo circonda è riduttivo e codardo. Gli unici film italiani che vincono ai festival sono ancora quelli sui contadini. E i contadini non li vanno a vedere. È un dramma. Se qualcosa deve essere cambiato nel cinema, se i ventenni e i trentenni vogliono prendersi il loro posto, si può iniziare a discutere da qui. È una possibilità come un’altra per aprire un dibattito, per riflettere su cosa fare invece di lamentarsi, per cercare una lingua comune come generazione anche al cinema. Perché altrimenti si finisce come i protagonisti de L’odio, e non è davvero il caso.
Le monde est à nous, non siate otaku, andate al cinema e parlate di questo film. Rebibbia regna.