L’1 marzo sarà un gran giorno per i cinefili di tutta Italia: in uscita sia Red Sparrow che l’ultimo attesissimo film di Roman Polański, Quello che non so di Lei. Ovviamente le analogie fra i due film si fermano qui – nonostante entrambi condividano la stessa sfumatura a tinta thriller.
Infatti, Quello che non so di Lei, proiettato fuori concorso al Festival di Cannes 2017, si presenta come un riuscitissimo thriller psicologico. È la settima volta che Polański partecipa al Festival e la quinta che dirige sua moglie in uno dei suoi film. Emmanuelle Seigner, collaboratrice e poi moglie di Polański dai tempi di Frantic (1988), veste qui i panni della protagonista, Delphine. A lei si affianca, nei panni di Leila, l’eccezionale Eva Green, regina della seduzione già dal set di Sin City: una donna per cui uccidere (2014). Indovinatissimo il mix delle due sulla scena, come già si intuisce dal trailer.
Quello che non so di Lei narra la storia di Delphine (Emmanuelle Seigner), scrittrice sull’onda del successo per l’accoglienza ricevuta al suo ultimo libro, un libro totalmente autobiografico. In questo libro Delphine ha messo a nudo i drammi della propria famiglia, specialmente la malattia e, poi, il suicidio di sua madre. In moltissimi la ammirano: il film si apre infatti, prima ancora che sulla protagonista, su una serie di primissimi piani dei suoi fan. Tuttavia, un detrattore misterioso, forse un famigliare, continua a mandarle lettere anonime accusandola di aver strumentalizzato il proprio dolore. Questo paralizza Delphine. È piena di taccuini e annotazioni sul prossimo libro da scrivere (nb: l’oggetto MacGuffin di cui sotto) ma, di fatto, le sue mani finiscono per indugiare ogniqualvolta sfiorino la tastiera del PC. Il peso di queste accuse, misto a quello di non voler deludere le aspettative dei propri lettori, si fa insostenibile. E, come se non bastasse, è aggravato da un grandissimo senso di solitudine: il compagno, un giornalista (Vincent Perez), è spesso in viaggio per lavoro; i figli, ormai grandi, pare si siano dimenticati di lei; di amici neanche l’ombra. Insomma, solo taccuini e collaboratori. E tante, tantissime, scatole piene di ricordi d’infanzia.
Un giorno, però, nella sua vita irrompe una figura misteriosa, Leila (Eva Green). Leila è una giovane ed affascinante ghostwriter, abituata a scrivere autobiografie di persone famose, ma mai libri inventati di proprio pugno. Non può farsi sfuggire l’occasione di diventare amica di Delphine. E infatti l’occasione non le sfuggirà. La giusta dose di parole, sguardi, attenzioni le fa vale fin da subito la fiducia della scrittrice. Il loro rapporto sarà un crescendo di affetto e confidenze fino a un punto di non ritorno: il giorno in cui Delphine accetta che Leila si trasferisca nel suo appartamento. Da questo momento in poi la presenza di Leila diventerà indispensabile per Delphine e la loro amicizia si trasformerà lentamente in un rapporto sempre più ambiguo e morboso. Così morboso da non capire quasi più la differenza che passerà fra il rosso dei capelli di una e il nero degli stivali dell’altra. Ma è veramente Delphine ad aver bisogno di Leila? Non è forse il contrario?
Lasceremo a voi la risposta, noi ora ci limiteremo a una piccola digressione sulla genesi del film. Come nasce il progetto di Quello che non so di Lei? Nasce – racconta Polański – da un romanzo consigliatogli proprio da sua moglie Emmanuelle: Based on a true story di Delphine de Vigan. Il romanzo, che pare essere stato scritto apposta per la regia accuratamente ambigua di Polański, è concepito in senso metaletterario, ovvero: è un romanzo che parla di un romanzo. Così il regista commenta la scelta del proprio fedelissimo adattamento cinematografico:
Ciò che del libro più mi ha attratto, e fin da subito, sono stati i personaggi e le situazioni inquietanti in cui si ritrovano. Si tratta di temi che avevo già affrontato in Cul-de-sac, Repulsione e Rosemary’s baby. È un libro che racconta la storia di un libro – e questo per me è molto intrigante. È il mio MacGuffin, l’oggetto che innesca l’intrigo. Inoltre, e sono partito proprio da questo, il libro mi dava la grande opportunità di esplorare la contrapposizione fra due donne.
Se anche a voi è capitato, leggendo, di chiedervi “che è un MacGuffin?“, ora ve lo spieghiamo subito. Questa strana parola non indica altro che una curiosa tecnica cinematografica che sicuramente avrete già incontrato in altri film: è la Rosabella di Quarto Potere, è la valigetta di Pulp Fiction, è la busta con i 40.000 dollari di Psycho, è il piccolo scrigno blu di Mulhollandrive. Insomma, è un oggetto di vitale importanza per i personaggi ma non per il narratore della storia, che, anzi, si diverte proprio a far gravitare intorno a questo misterioso oggetto una certa dose di suspense, giocando con le attese di noi poveri spettatori. Bene, nel caso di Polański, l’oggetto misterioso in questione è proprio il libro che Delphine, la protagonista, deve scrivere.
Questo ovviamente non vuol dire che il libro nel cassetto di Delphine non abbia una certa importanza; anzi, ce l’ha eccome, d’altronde – come diceva Polański – “è l’oggetto innesca l’intrigo”. Semplicemente, noi non ne sapremo mai il contenuto. E tutti i confronti avvenuti fra Delphine e Leila non sono di fatto funzionali alla stesura di questo libro: sono semplicemente il pretesto con cui Polański mette in scena “l’opposizione fra due donne” – tema ancora non trattato dal regista. Mentre invece – e lo constatiamo con un briciolo di amarezza – lo schema narrativo generale, quello del doppio e del rapporto realtà/finzione, Polański lo aveva già trattato abbondamentemente in altri film.
È il motivo per cui un vero estimatore del suo cinema potrebbe rimanere deluso di fronte all’ennesimo gioco di specchi; come nella Venere in pelliccia (2013), anche in Quello che non so di Lei diviene difficile (forse impossibile) capire dove finisca la realtà e dove inizi la finzione. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che questo gioco di specchi a Polański viene particolarmente bene e riesce sempre a conquistarci, complice anche la scelta di un nome così evocativo per il personaggio di Eva Green, Lei (sia abbreviativo di Leila che anonimo pronome personale). Inoltre dobbiamo sicuramente riconoscergli il merito di aver saputo creare un effetto di suspense con un cast composto solo di 2/3 attori, attivo per lo più in spazi chiusi – merito che però deve spartire con lo sceneggiatore Olivier Assayas, gran cantore dei rapporti fra donne dai tempi di Slis Maria (2014).