A brevissimo nella sale cinematografiche italiane l’ultima fatica di Roger Michell, Rachel, un mystery drama tratto dal quasi omonimo libro di Daphne du Maurier, My cousin Rachel (1951).
Il regista, consacrato da Notting Hill come gran maestro della romantic comedy, abbandona in Rachel qualsiasi eco di leggerezza sentimentale e si addentra in una fitta trama di passioni, misteri, ambiguità e cupi presagi.
La storia vede protagonisti la bellissima Rachel Weisz, già premio oscar in The Constant gardener – La cospirazione (2006), e Sam Claflin, assunto alla notorietà con il ruolo di Finnick Odair nella trilogia degli Hunger Games (2012 – 2015). I due, rispettivamente nei panni di Rachel Sangalletti e Philip Ashley, formano, fin dal primo istante, una coppia squisitamente auto-distruttiva; queste infatti le parole della voce over con cui il film si apre:
Lei era innocente? Era colpevole? Chi è colpevole?
Il mistero sul reale rapporto fra i due è il vero filo conduttore dell’intera vicenda. Ve la riassiumiamo: Philip è un promettente proprietario terriero, orfano di entrambi i genitori, e per questo cresciuto sotto l’ala del cugino Ambrose e del saggio tutore Mr. Kendall (Iain Glen, già noto per il ruolo di Jorah Mormont ne Il Trono di Spade). La figura di Ambrose, che occupa le prime sequenze del film, pare assumere, attraverso lo sguardo in soggettiva di Philip, tutta una dolce e rassicurante sfumatura paterna. Tuttavia, gli spazi di approfondimento del personaggio sono pochi; anzi, possiamo dire che egli finisce fin da subito per sopravvive solo come mera figura epistolare. Una misteriosa malattia lo toglie presto di scena e di lui non lascia altro che un mucchio di parole deliranti. Lettere, bigliettini, annotazioni sono sparse ovunque (nello scrittoio, tra i libri, nelle tasche delle giacche…) e paiono tutte urlare una cosa sola:
Ce l’ha fatta a distruggermi, Rachel, il mio tormento.
Da qui comincia il vero dramma. Dopo una lunga mezzora di suspense, finalmente appare Rachel sulla scena: è andata a vedere la tenuta del defunto (e amato) marito in Cornovaglia, nella speranza di trovare conforto al proprio dolore. Qui fa la conoscenza dell’ormai padron Philip che, da determinato che era a farle pagare ogni pena inflitta all’amato cugino, finisce per invaghirsi perdutamente di lei. L’ospitalità di Rachel da provvisoria diventa definitiva e la vicenda, da questo momento in poi, è tutta cadenzata, a parti alterne, sui toni dell’amore rifiutato e dell’amore morboso. L’effetto finale è sicuramente quello di straniamento nei confronti dello spettatore, che non solo ha difficoltà a inquadrare i rapporti reali fra i due perosnaggi, ma anche si perde in una miriade di piccole azioni ripetitive – prima fra tutte quella di sorseggiare continuamente una speciale varietà di tisana “all’italiana”.
Insomma, dobbiamo ammettere che, per quanto la nascita di una relazione sulle ceneri di un lutto possa contribuire a rendere problematici i rapporti fra le parti, Rachel poteva sicuramente ambire a una maggiore chiarezza di fondo. L’impressione ricavatane è che i vari strategemmi narrativi messi in atto da Michell per cavalcare l’onda mystery della vicenda non funzionino a dovere o, al contrario, funzionino forse troppo, dato l’alto tasso di interrogativi lasciati inevasi lungo il tragitto. Lo spettatore non può fare a meno di lasciare la sala chiedendosi se le tisane fossero davvero avvelenate, se i sentimenti di Rachel fossero davvero sinceri o solo motivati dalla brama di accaparrarsi l’eredità, se i biglietti di Ambrose fossero davvero frutto del delirio, etc. Insomma, lo spettatore – a nostro avviso – nemmeno col finale riesce a far debitamente luce sull’enigma di questa vicenda. Mentre il bello del mystery è fornire, sì, l’enigma, ma anche la sua chiave risolutiva.
Tuttavia, se l’obiettivo mystery è stato solo parzialmente centrato, certo non possiamo dire lo stesso per la ricostruzione scenografica. Rachel è un riuscitissimo dramma in costume: i paesaggi inglesi e le antiche ville di Arezzo, dove il film fu girato, ottimamente si prestano all’ambientazione tardo ottocentesca. Queste le parole con cui il vicesindaco di Arezzo, Gianfrancesco Gamurrini, saluta la troupe:
Arezzo, come avete potuto vedere, è una città bellissima, sia per le preziose opere d’arte che custodisce, che per il paesaggio mozzafiato che la circonda. Mi piace definirla uno scrigno di tesori tra le colline toscane. E avere la possibilità di promuoverla attraverso produzioni cinematografiche mi fa molto piacere. Ringrazio quindi i produttori che hanno scelto anche la nostra città come location, per noi averli ospitati è un grande onore
Ci auguriamo, dunque, che il film possa lanciare un’embrionale forma di cineturismo nella bellissima città toscana e, soprattutto, possa contribuire a diffondere anche all’estero la fama del grande Pierfrancesco Favino, qui nel ruolo (piuttosto marginale) dell’ambiguo Dott. Rainaldi, “avvocato, amico e consulente del padrone“.