[Attenzione! Questo articolo contiene spoiler su Ready Player One]
In un mondo dove le cose vanno più male che bene, dove tutto sembra impossibile, l’unico sentore di libertà prende forma in un’oasi dove è possibile essere tutto ciò che si vuole e fare ciò che si vuole, almeno in teoria. Su queste basi James Halliday crea il mondo di OASIS una vera e propria oasi dove tutti possono rifugiarsi per potersi creare un’alternativa alla loro triste realtà. La rottura di quello che possiamo definire “equilibrio” in questo futuro alternativo avviene alla morte di Halliday, il quale crea un’enorme sfida all’interno di OASIS: un easter egg nascosto nel sistema e chiunque lo troverà diventerà erede della fortuna di Halliday. Questa è la trama di Ready Player One, ultimo film di Steven Spielberg, tratto dal romanzo di Ernest Cline, il quale collabora anche alla sceneggiatura. Fin dalle prime scene è fin troppo palese come ogni elemento presente nel film strizzi l’occhio a un tipo di pubblico ben preciso, se vogliamo essere più precisi Spielberg, e Cline prima di lui, cercano la vicinanza di una comunità subculturale che oggigiorno viene definita “nerd”. Ma cosa vuol dire esattamente “essere nerd”? Ebbene, Ready Player One sembra rispondere a questa domanda in maniera piuttosto esauriente ed è forse questo che regala al film quel non-so-che in grado di toccare il cuore degli spettatori, o almeno di parecchi di loro. Perché essere un nerd non è un qualcosa che può essere spiegato, può solo essere mostrato.
Protagonista della vicenda è Wade Watts, un ragazzo come tanti, con una vita noiosa e una situazione familiare tutt’altro che piacevole, che decide di partecipare al contest di Halliday con il suo avatar Parzival per cercare di dare una svolta alla sua vita, ma soprattutto in fede all’enorme ammirazione che prova nei confronti del creatore di OASIS. Wade è un nerd, non c’è il minino dubbio, adora i videogiochi, ha visto un sacco di film e ascolta un certo tipo di musica, ma soprattutto è un fan di Halliday: conosce alla perfezione la biografia e condivide tutti i suoi interessi, tanto che è come se lo avesse conosciuto davvero. Wade/Parzival e i suoi amici si ritrovano a capire che non è la bravura nei videogame in sé che li porterà a vincere la competizione ma le passioni che li accomunano. Amare le stesse serie tv, gli stessi film, gli stessi giochi, è un po’ come parlare una lingua che gli altri faticano a comprendere e tutto lo stile del film si basa proprio su questo concetto. Chi scrive ha visto il film con persone che di norma non giocano ai videogame, né hanno mai visto film come Shining e ovviamente non capivano perché la sottoscritta esultasse praticamente a ogni scena durante la visione. Su questo concetto si basa l’empatia tra il protagonista e lo spettatore, il quale riconosce le infinite citazioni presenti nel film: Parzival o Artemis non hanno effettivamente studiato per avere la cultura necessaria per risolvere gli enigmi, quello che sanno lo sanno e basta, sono cresciuti assieme a certe storie e a certi schemi di pensiero, tanto che il loro bagaglio culturale pop fa parte ormai del loro modo di essere. Quando Artemis si veste da Goro del film di Mortal Kombat, chi in sala lo ha riconosciuto di sicuro ha giocato al videogame in passato e avrà visto di conseguenza la trasposizione cinematografica. Chi ha riconosciuto invece la formula magica per attivare il globo? In Excalibur di Boorman Morgana lo ha ripetuto così tante volte nell’opera originale che è impossibile non impararlo a memoria. Oppure il Gigante di Ferro che si sacrifica da eroe e affonda nella lava alzando il pollice come in Terminator 2, o anche la rovesciata di che esegue Parzival, la stessa di Law di Tekken. Solo questa manciata di easter eggs equivale ad almeno vent’anni passati al cinema e in sala giochi.
Tutta questa giostra di esempi ci fa capire una verità, che Ready Player One è capace di mostrarsi come due film distinti, ossia una cornucopia di citazioni per i nerd e un bel film d’intrattenimento per tutti gli altri. La cosa interessante è che nessuna di queste due categorie di spettatori può vedere il film recepito dall’altra, un po’ come due universi paralleli si contrappongono tra uno spettatore e l’altro.
Tutto ciò non vuole essere una rivalsa per i nerd quali detentori di chissà che verità sconosciuta, ma è solo un modo semplice ed efficace di spiegare come una subcultura incarni un vero e proprio linguaggio in grado di essere colto solo dai propri simili. Dato che questa lingua multimediale viene appresa in una maniera totalmente personale e ricopre un arco temporale che comprende praticamente tutta la vita, è piuttosto evidente comprendere che non si può diventare nerd da un giorno all’altro, come invece tenta di fare Nolan Sorrento, il quale non ha la minima idea di cosa sia lo spirito del gioco in sé. Non a caso Sorrento è un grande sostenitore delle micro transazioni. Per chi non lo sapesse le micro transazioni danno la possibilità ad un videogiocatore di acquisire abilità, oggetti e altro ancora, che di norma dovrebbero essere dei premi per chi raggiunge un certo punteggio, semplicemente pagando. Meglio non girarci troppo intorno, le micro transazioni nei giochi sono un po’ il cancro dello spirito di competizione che sta alla base del mondo videoludico. Prima di questa realtà un giocatore poteva acquisire certe abilità in game solo raggiungendo particolati obiettivi, il diventare più forti era quindi un premio per essere riusciti a superare un ostacolo, con questo scherzetto invece basta sganciare la grana ed è possibile vincere facile. Il bello dei videogame è che sono, o dovrebbero essere, una zona neutrale e non importa se si è dei poveracci, dei ragazzini di undici anni o delle casalinghe quarantenni; lì, se si è bravi, lo si è per le proprie capacità ed è giusto essere ricompensati per questo, tuttavia il punto non è mai una ricompensa. Chi ha alle spalle anni di partite al pc o alle console sa bene che non si aveva mai la certezza di riceve un premio alla fine della partita ma solo la consapevolezza di aver giocato bene e di essersi goduti il gioco fino in fondo, il premio finale – vite infinite, arma devastante, ecc. – era solo qualcosa in più, una gratifica, mai un fine. Proprio questo è il messaggio di Ready Player One, ben palese nella prova per l’ultima chiave: il punto non è vincere ma giocare e basta.
Non si può comunque negare che il film difetti del tipico buonismo del quale Spielberg ultimamente sembra abusare fin troppo: innamoramenti corrisposti in tempistiche lampo, niente che possa sconvolgere troppo i pargoli, villain molto stupidi, personaggi un po’ piatti. Sta di fatto che questi non possono essere definiti propriamente dei difetti, sono solo delle scelte “furbe” che fanno tutti contenti ma che minano un po’ lo spirito provocatorio da cui nasce il cinema, dopotutto è un film per famiglie, che vogliamo pretendere? In quanto film per tutti non è un caso mostrare come i giovani protagonisti, amici tra loro ma che non si sono mai incontrati di persona, abitassero tutti a pochi chilometri l’uno dall’altro. Il messaggio per i giovanissimi è forte e chiaro: è bellissimo giocare ai videogame, ma la vita vera è altrettanto bella. L’importanza di questa pellicola, che si manifesta già come un cult solo perché manifestazione intrinseca della natura dei cult, esprime un insegnamento, forse un po’ melenso, ma importante da assimilare ora più che mai, ossia che amare le proprie passioni è una parte fondamentale di noi stessi ed è un aspetto fondamentale della nostra vita. Accettato questo anche il mondo reale potrà essere vissuto più attivamente e con molto più entusiasmo.