Non è affatto facile parlare di un film ambientato negli anni ’70, in bianco e nero, con la regia più indagatrice e fredda possibile. Soprattutto se quel film, poi, si chiama Roma.
Vincitore del Leone d’Oro a Venezia 2018, candidato ai Golden Globe come Miglior Film Straniero, Miglior Sceneggiatura e Miglior Regia, Roma di Alfonso Cuarón è stato rilasciato il 14 dicembre sulla piattaforma streaming Netflix (dove recentemente è uscito anche l’ottimo Mowgli). Il film era stato mostrato anche al New York Film Festival e al Toronto International Film Festival. Già da subito, riceve ottime recensioni da parte della critica, che in particolar modo loda il bianco e nero gestito da Cuarón e Galo Olivares (direttori della fotografia entrambi) e le tematiche affrontate nel film.
Perché non è facile parlarne? Perché Roma è un film, che all’apparenza sembra molto semplice, ma arrivati quasi alla fine dei suoi 135 min. di durata, si comincia ad essere pervasi da un senso di vuoto e tristezza, che quello che si ha da dire perde improvvisamente senso.
Il film
La pellicola è ambientata a Colonia Roma, zona residenziale di Città del Messico (luogo d’infanzia del regista). Qui vivono: Antonio, medico, sua moglie Sofia (la bravissima Marina de Tavira), i loro quattro splendidi figli (piccole promesse del cinema), la madre di Sofia e le loro due domestiche: Cleo (la straordinaria Yalitza Aparicio) e Sofi. Ben presto scopriamo che Antonio non è in buon rapporti con la moglie e deciderà, con la scusa di partire per lavoro, di abbandonare la famiglia. Cleo passa le sue giornate in una costante routine, che consiste in pulire, lavare i pavimenti, accudire i bambini e preparare da mangiare. Non sempre il lavoro di Cleo viene gratificato a dovere, soprattutto quando Sofia decide sfogare le sue frustrazioni su quest’ultima. Ma la domestica ha anche degli svaghi. Infatti, proprio durante un’uscita con Fermín (un fanatico delle arti marziali), i due consumano un rapporto e Cleo rimane incinta.
Lo sguardo sui tempi
Quella in cui lavora Cleo è una famiglia numerosa, questo sì, ma di buon cuore. Sullo sfondo delle vicende famigliari, in cui la domestica è coinvolta, vi è un sottile sguardo politico del Messico di quegli anni. Ma noi vediamo tutto con gli occhi di Cleo, occhi semplici e ingenui, che non si lasciano coinvolgere in questioni che non la riguardano. Quindi rimaniamo sempre, o quasi sempre, in casa. Pian piano, entrando nella storia, notiamo l’attenzione di Cuarón posta ai dettagli. Dal culto delle automobili (la Ford immacolata che entra a malapena nel cortile), alla forte presenza televisiva nella quotidianità, fino all’impatto del cinema di fantascienza (si può persino ammirare per pochi secondi, il film che ispirò Gravity). Per non parlare della ricostruzione del capodanno borghese nella fattoria dello zio. In cui, caccia, alcol e cowboy sono l’esatta rappresentanza del Messico arricchito dell’epoca.
Famiglie che si sfasciano
Nonostante l’amore che Cleo nutre per i figli di Sofia e nonostante il fatto che la sua amica Sofi le sia vicina, la domestica soffre per il fatto di essere rimasta gravida. Ella rivela subito tutto a Sofia e le spiega anche che Fermín non vuole avere a che fare col bambino. Cleo è stata abbandonata e questo scatena una sorta di empatia molto celata da parte di Sofia. È come se per tutto il film, notassimo una passività di Cleo, che, considerandosi più una domestica che una parte integrante della famiglia, reprime i suoi sentimenti. Sofia, d’altro canto non ha tempo per i problemi di Cleo. Sfoga la sua rabbia sulla Ford tanto amata dal marito, scappa con i figli al mare, abbandona il vecchio lavoro per poter tirare avanti.
Madri
Cleo e Sofia sono due facce della stessa medaglia, ma hanno dei ruoli ribaltati. Cleo vorrebbe costruirsi una famiglia, esprimere i suoi sentimenti ai bambini, divenire madre, ma non può. Verso la fine del film, partorirà una bimba morta. La sua frustrazione, il suo dolore però, sono soffocati da problemi che le sembrano ben più gravi dei suoi, ovvero i problemi di Sofia, anche lei sola e abbandonata. Ogni parola che Cleo vorrebbe pronunciare viene fagocitata da un nodo alla gola costante (che ha anche lo spettatore!). Le ultime scene del film ci rivelano una vera grandezza di scrittura. Sofia porta i bambini al mare per qualche giorno, per rivelargli la verità sul loro padre. Qui, notiamo veramente cosa vuol dire (osservando Cleo nel lungo piano sequenza) non avere la forza di intervenire e immettersi nel discorso, trattenendo costantemente le lacrime. Ed infine assistiamo a questa scena: Cleo, non sapendo nuotare, salva i bambini che si erano allontanati dalla riva. Poi, esplode in un pianto liberatorio. Ora può finalmente abbracciare la famiglia come fosse la sua. È il massimo esempio che Cuarón poteva usare per farci intendere la devozione e l’amore che Cleo conservava dentro di sé, pronto a manifestarsi. L’atto naturale di gettarsi incontro alla morte, (in una scena alquanto complicata), è un vero e proprio atto materno. Cleo era già una madre, anche prima di rimanere incinta.
La regia e la fotografia di Alfonso Cuarón
Classe 1961, Alfonso Cuarón scrive, dirige, monta e illumina questo film. Il più autobiografico di tutte le sue pellicole. Ma il bianco e nero non è mai facile. Soprattutto nel 2018. Le tinte sono molto accese per i campi lunghi e lunghissimi, mentre nei primi piani abbiamo ottimi contrasti e chiaro-scuri. Il regista gioca con l’illuminazione dandoci motivi, luci della città, oggetti da ricercare nel frame. La regia è pacata, passiva, fredda e tranquilla. Assistiamo a: lunghi piani sequenza a camera fissa, panoramiche rivelatrici, che si disperdono nell’immensità della casa, oppure ci indicano cosa accade intorno a noi, carrellate laterali per scene in movimento. Niente macchina a spalla, niente fluidità Steadicam, niente droni o altro. Cuarón ci riporta al cinema classico, alla geometria e omaggia i grandi cineasti (uno a caso Kurosawa, nella scena del Kung Fu). Immerge la sua macchina da presa in una società patriarcale e maschilista, dove l’uomo è il più attento alle automobili, alla classe e all’allenamento fisico ma è anche il primo a fuggire di fronte alla naturalezza di un parto e a non possedere forza di volontà (si veda la scena dell’equilibrio).
Roma è e non può non essere che un film d’altri tempi, una lettera d’amore per il passato e per il cinema, un bacio lanciato alle donne imperiture e forti, agli sguardi innamorati e compassionevoli. Cleo e Sofia ci insegnano cosa voleva dire sopravvivere sole, ai drammi dell’abbandono ed andare avanti. Non è una favola, non sappiamo se il finale sarà un lieto fine. Sappiamo però, che Cleo sorride ancora e Sofia ha una macchina nuova: una semplice utilitaria che però ha il suo giusto spazio.