“Married on Wednesday, Bedded on Thursday, Sickened on Friday, Died on Saturday Buried on Sunday.”
Questo è il macabro ritornello, cantato da un girotondo di bambine, che apre la stagione; questa la sequenza degli eventi che chiude per sempre tutta la storia. Come le migliori saghe, anche Salem, la serie trasmessa dal network americano WNG, si conclude col terzo capitolo e lo fa tirando le somme di tutti i cicli narrativi iniziati, senza tralasciare nessun personaggio. Una vera fine dunque, forse determinata dal calo di ascolti che ha gradualmente interessato lo show dagli esordi fino agli episodi andati in onda negli Stati Uniti lo scorso Halloween, (2-300 mila telespettatori contro l’iniziale milione e mezzo), e aveva già da tempo fatto parlare di epilogo i creatori B. Braga e A. Simon.
Tralasciando l’evidenza dei numeri, la qualità del prodotto non è mai venuta meno e si è conservata intatta fino all’ultimo fotogramma, tanto da poter affermare che, imposta o no, questa conclusione lunga dieci puntate è stata capace di onorare la storia e l’affetto dei fan, come gli sceneggiatori avevano promesso all’annuncio della cancellazione.
Affermazione argomentata qui di seguito, con spoiler.
L’ultimo capitolo di Salem si presenta come una nera settimana santa, destinata a concludersi anch’essa con la Black Sunday, una Pasqua di segno opposto a quella cattolica, che vedrà risorgere e vincere il Diavolo, brillantemente interpretato dal giovanissimo Oliver Bell. Ma la vicenda si apre con un’altra resurrezione, quella di Mary Sibley, al secolo Janet Montgomery, una sfortunata Biancaneve che i baci dell’amato John Alden, il per sempre eroe romantico de I passi dell’amore, Shane West, non avevano risvegliato lo scorso season finale. Di qui si intrecciano le azioni dei personaggi, tese a impedire o avallare la venuta del Demonio, attraverso ripetuti e vicendevoli tradimenti.
Proprio la parabola descritta dai loro destini, in particolare di Anne Hale, portata al culmine da Tazmin Merchant così come la storia fa col suo personaggio, rende questo finale inaspettato: sarà lei, agli inizi presentata come ingenua e priva di ambizioni, il giudice della vita e della morte di tutti i protagonisti.
Ciò che invece non ha sorpreso è stata la consueta cura cinematografica dell’allestimento: dai bellissimi costumi, ai macabri riti occulti e la scenografia che alterna cuori di foreste dalla suggestione “Timburtoniana” a interni perfettamente riprodotti, ricchi di richiami artistici e filosofici che diventano parte integrante dell’azione, il tutto lambito da una fotografia perfettamente modulata in ogni contesto, tra oscurità, luci metafisiche, vividi toni di rosso e polvere infernale. Agli intenditori, poi, non sarà sfuggita quella che è stata più di una strizzata d’occhio al Notorious di Alfred Hitchcock, pedissequamente citato sia nelle battute che nei movimenti di macchina, in una scena dell’ultimo episodio, quando John entra in casa Sibley e tenta di portare via Mary.
Ottima anche la prova di tutto il cast che, già arricchito di un pezzo storico della televisione degli anni Novanta, Lucy Lawless, ha visto aggiungersi anche l’autore della strepitosa sigla dello show (Cupid carries a gun), Marilyn Manson, nel ruolo di un sinistro e malvagio barbiere, sulla falsariga di Sweeney Todd. Il personaggio ben si inserisce nell’atmosfera sordida e apocalittica che ha avvolto la città, in cui spuntano continuamente personaggi spaventosi e orribilmente trasfigurati, conferendole sempre più l’aria di un inquietante serraglio satanico che disorienta l’inutile e ottusa folla e non risparmia tanto gli aguzzini, Mercy Lewis (Elise Eberle) quanto i propri eroi, come il povero Isaac (Iddo Goldberg).
Anche alla fine e in particolare nel ritmo accelerato degli ultimi cinque episodi, Salem mantiene il suo carattere, la spregiudicatezza con cui affronta l’esoterismo, la blasfemia, l’oppressione e la ribellione del sesso femminile in una società puritana e patriarcale, facendo della guerra tra ordini una lotta tra bene e male, tra i quali, tuttavia, non esiste una vera e piena corrispondenza: ognuna delle parti ha in sé torti e ragioni e nessuna riesce a proporsi come la giusta soluzione. Persino i più eroici falliscono o abbandonano il campo, avvolti nella luce pallida e ovattata di una fiaba, lasciandosi indietro ciò che sembrava essere lo scopo primario del loro agire.
Non c’è speranza di realizzare una vera giustizia nel nostro mondo, questo sembrano voler dire gli autori quando scelgono, proprio negli ultimi istanti di spettacolo, di stringersi intorno a Cotton, (Seth Gabel di Fringe), al suo terrore di fronte all’Inferno, allo strazio di un angelo di pietra che si copre il volto con la mano.