Il premio oscar Martin Scorsese si cimenta con un tema a lui molto caro – il rapporto tra uomo e fede – e per farlo sceglie di portare su pellicola l’omonimo romanzo di Shusaku Endo (precedente adattato per il grande schermo dal regista nipponico Shinoda nel 1971) alla cui trasposizione aveva iniziato a lavorare già negli anni Ottanta. Un lungo travaglio finalmente giunto al parto. Andiamo a conoscerne i frutti.
Una lettera dall’Estremo Oriente
Portogallo, 1643. Notizie di terribili persecuzioni ai danni di missionari e fedeli cristiani giungono dal paese del sol levante. Ancor più terribile, però, la notizia che padre Ferreira (Liam Neeson), uno degli ultimi gesuiti partiti per evangelizzare il paese, sembra aver pubblicamente rinnegato la propria fede, convertendosi al Buddismo e prendendo in moglie una donna giapponese. Padre Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Garupe (Adam Driver – ben più credibile come monaco che come super-cattivo della nuova trilogia di Star Wars), allievi spirituali dell’apostata, incapaci di credere ad un simile – e per loro tormentoso – accadimento, decidono di partire per il Giappone, consapevoli dei rischi di persecuzione, tortura e morte cui vanno incontro. Inizia così un viaggio tanto materiale quanto spirituale che porterà i due a confrontarsi non solo con l’inquisitore Inoue Masashige (una perfetta nemesi cinematografica), ma anche con il periglioso vacillare della propria fede.
Il Silenzio
Silence non è un film, o meglio non solo. È un cammino, una ricerca.
Sì, le scelte registiche sono buone, le interpretazioni convincenti, la scenografia decisa e coerente nell’inquadrare il contesto; ma non è questo il punto. La bontà stilistica non risulta mai il fine della pellicola e a tratti non ne è nemmeno il mezzo. Si limita ad essere quel necessario fiammifero con cui accendere la candela di una quieta meditazione lunga centossessantuno minuti. Non una preghiera, ma una riflessione sulla sofferenza dell’uomo e – soprattutto- sul silenzio di Dio di fronte ad essa, mistero enigmatico ed impenetrabile anche per chi, come i due gesuiti protagonisti delle vicende narrate, ha dedicato la propria vita alla fede. Se è facile non vacillare nel tepore del proprio monastero, è altrettanto semplice cedere quando si scruta nell’abisso. Come mantenere saldo il proprio credo di fronte ad un silenzio così fibrillante di angosciosa afflizione? Dove trovare la forza per non abiurare di fronte alla più bieca ferocia del barbaro genere umano? Il titanico ed antitetico scontro tra fede e dubbio anima ogni fotogramma proiettato sul grande schermo, rievocando nello spettatore – sia esso credente o ateo, non importa – un conflitto già vissuto nella propria biografia.
Le domande insistentemente sollevate, però, non si limitano qui. È in ballo la dicotomia tra verità e Verità. In uno dei dialoghi tra Masashige e Rodrigues si concretizza l’incolmabile distanza tra i due mondi a confronto. Per il primo la verità è come una pianta che non può che appassire in un terreno inadatto: così è il Cristianesimo forzatamente seminato in un podere culturale anni luce distante da quello occidentale e dunque destinato a dar frutti marci, ad arrecare sofferenza a quella massa di plebe senza nome cui vorrebbe donare una speranza. Per il gesuita, invece, la Verità è universale, valida in ogni dove, esigente nel suo dover essere donata ad ogni uomo a qualsiasi costo.
Quando la vita non sa rispondere ci prova la settima arte
Silence non è affatto il miglior film di Scorsese, lungi da noi affermare tanto. Di certo è però tra i più appassionati, forse quello vissuto con più tribolante partecipazione dal regista: le domande non sembrano poste allo spettatore, sembrano poste a se stesso, nel tentativo di cercare nella propria opera risposte mai trovate altrove.
Ed è questa nobilitazione che ci è piaciuta molto: la settima arte in risposta ai drammatici quesiti esistenziali.